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Illuminare la notte

Astrofili e Astrofotografi passano la loro vita alla ricerca del buio. Eppure, anche il nictofilo più incallito sa che, per muoversi al buio, è necessario utilizzare una fonte di luce. Il problema non si porrebbe se l’occhio non impiegasse più di 30 minuti per adattarsi all’oscurità.

Questo fenomeno di adattamento inizia con la completa dilatazione della pupilla che passa da un diametro di 2 mm in condizione di luce a 8 mm in condizione di buio. Se il restringimento della pupilla è un processo veloce, quasi istantaneo; la dilatazione è un processo molto lento e può durare alcuni minuti. Bisogna inoltre considerare il fatto che, in assenza di luce, i coni smettono di funzionare ed i bastoncelli iniziano ad attivarsi dando origine a quella che è nota come visione notturna (monocromatica). Questa attivazione è un processo lento, della durata di una ventina di minuti, ed è alimentato dalla sintesi da parte del nostro corpo di una proteina detta rodopsina. Viceversa, bastano invece pochi secondi di luce per rompere tale molecola con conseguente riduzione della sensibilità dei bastoncelli.

Ora, come fare a mantenere una condizione di adattamento all’oscurità garantendo un livello minimo di illuminazione? I biologi si accorsero fin da subito che la neutralizzazione della rodopsina non è stimolata dalla luce rossa, anche se intensa. Quindi, illuminando l’ambiente con una luce rossa a bassa intensità sarà possibile conservare la condizione di adattamento al buio. Questo spiega perché negli osservatori astronomici si illuminano gli ambienti con delle lampade di colore rosso.

Con la nascita dell’astrofotografia l’utilizzo della luce rossa assunse ancora maggiore importanza in quanto questa era l’unica in grado di non impressionare le pellicole fotografiche. Conferma di questo fatto è l’utilizzo dell’illuminazione rossa nelle camere oscure.

Per tutti questi motivi l’utilizzo di torce e/o lampade rosse sono diventate con il passare del tempo le uniche fonti di luce permesse durante campi astronomici, astrofotografici e negli osservatori astronomici. Ma siamo sicuri che questa condizione è ancora valida ai giorni nostri?

Per quel che riguarda gli astrofili visualisti nulla è cambiato e la luce rossa rimane l’unica sorgente di illuminazione che può garantire loro una visione del cielo notturno ottimale. Gli astrofotografi invece hanno subito un balzo tecnologico che li ha portati dall’epoca della pellicola fotografica ai moderni sensori a semiconduttore.

Questi ultimi vengono utilizzati sia nella fotografia tradizionale che in quella astronomica. Se in passato con la stessa pellicola fotografica era possibile eseguire scatti sia fotografici che astrofotografici, oggi i sensori a semiconduttore vengono impiegati in modo differente a seconda del loro campo di applicazione.

Nella fotografia tradizionale realizzata con normali reflex digitali (note anche come DSLR), il sensore a semiconduttore risponde alla luce visibile in modo del tutto analogo a quello che facevano un tempo le pellicole fotografiche. Questo vuol dire che anche le reflex digitali moderne sono poco sensibili alla luce rossa.

In astrofotografia invece i sensori a semiconduttore devono essere molto sensibili alla luce rossa ed del vicino infrarosso. In questo modo è possibile massimizzare il segnale prodotto dalle nebulose ad emissione che brillano principalmente nella riga Hα a 656 nm (colore rosso). Questo può essere ottenuto anche modificando le tradizionali reflex digitali in modo da renderle più sensibili alla luce rossa (si legga l’articolo “La modifica Baader per DSLR”).

La risposta spettrale delle camere astronomiche ovvero la capacità di queste di raccogliere la luce a seconda della lunghezza d’onda della luce incidente, viene successivamente alterata dall’interposizione di filtri interferenziali come i filtri anti-inquinamento luminoso (LPS) o a banda stretta (Hα, Hβ, SII, OIII). L’effetto complessivo di camera e filtri determina la lunghezza d’onda, e quindi il colore, della luce con cui illuminare gli ambienti circostanti.

Purtroppo, tutte le sorgenti di luce artificiale oggi permesse e disponibili sul mercato sono a spettro continuo. In particolare, le più diffuse, se non uniche presenti sul mercato, sono le luci LED. Per produrre una luce di un determinato colore utilizzando la tecnologia LED, è possibile utilizzare almeno quattro diverse tecniche:

  1. Utilizzare un diodo LED con spettro di emissione che, seppur continuo, presenta un picco alla lunghezza d’onda che identifica il colore. In questo caso si parla di LED colorati.
  2. Utilizzare una terna di LED colorati: rosso, verde e blu. In questo caso, ciascun colore sarà generato dalla combinazione di questi tre LED. Lo spettro complessivo sarà ovviamente continuo ed in questo caso si parlerà di LED RGB.
  3. Utilizzare un LED in luce bianca, circondato da un bulbo in vetro o plastica colorata. In questo caso, lo spettro continuo del LED verrà ristretto ad una banda centrata nel colore richiesto. Seppur spesso anche in questo caso si parla di LED colorati in realtà la definizione corretta è lampade LED colorate in quanto il colore non è dato dal diodo LED ma dal colore del bulbo.
  4. Utilizzare un LED in luce bianca a cui è stato sovrapposto un filtro interferenziale capace di far passare solo una determinata lunghezza d’onda. In questo caso lo spettro complessivo di emissione della lampada sarà in buona approssimazione discreto e corrispondente alla lunghezza d’onda voluta. Lampade del genere non esistono sul mercato ma possono essere assemblate artiginalmente unendo un LED bianco ad un filtro interferenziale. In questo caso parleremo di lampade LED filtrate.

Da sinistra a destra: lampada LED colorata, LED RGB, lampada LED filtrata.

Di tutte le soluzioni, ovviamente la lampada LED filtrata è l’unica che realmente ci permette di controllare la lunghezza d’onda della luce ambientale, essendo questa a spettro discreto. In tutti gli altri casi, la nostra sorgente di luce sarà a spettro continuo ed andrà necessariamente a peggiorare la qualità delle nostre riprese astrofotografiche introducendo un gradiente cromatico. Purtroppo però, trovare filtri interferenziali capaci di fare passare una sola lunghezza d’onda indipendentemente dall’angolo di vista è davvero molto difficile e particolarmente costoso.

Lampada LED filtrata con filtro 10 nm Pixelteq a 620 nm a confronto con la risposta spettrale di un filtro anti-inquinamento luminoso IDAS NGS1.

Usare lampade LED colorate è sicuramente la soluzione peggiore in quanto la banda passante è generalmente troppo ampia. Ad esempio, una lampada con bulbo di colore rosso emette luce con lunghezze d’onda comprese tra 620 e 760 nm con lunghe code nel verde e nel vicino infrarosso. Con una banda di emissione così ampia, la possibilità di dare contributi al canale rosso delle nostre riprese astrofotografiche, persino quelle in banda stretta, non è per nulla trascurabile. Ricordiamo inoltre che in questo range troviamo anche la famosa linea Hα delle nebulose ad emissione, fondamentale per le riprese di oggetti del profondo cielo.

Lampada LED colorata a confronto con la risposta spettrale di un filtro anti-inquinamento luminoso IDAS NGS1. L’area colorata rappresenta il possibile disturbo generato dall’illuminazione ambientale.

Anche utilizzare LED RGB può essere dannoso. Infatti, per generare qualsiasi colore che non sia uno dei tre primari additivi è necessario accendere tre LED: rosso, verde e blu. Questo si traduce in un rumore presente in tutti e tre i canali della nostra ripresa astrofotografica, indipendentemente dal filtro utilizzato. Quindi la soluzione LED RGB è preferibile alla lampada LED colorata solo se si utilizza uno dei tre colori primari.

Lampada RGB impostata per generare luce a 620 nm a confronto con la risposta spettrale di un filtro anti-inquinamento luminoso IDAS NGS1. L’area colorata rappresenta il possibile disturbo generato dall’illuminazione ambientale.

Infine, l’utilizzo di LED colorati risulta essere nel suo complesso quella meno dannosa, ad esclusione della lampada LED filtrata decisamente meno economica. Data infatti la risposta spettrale del sistema camera astronomica + filtro interferenziale, è possibile determinare la lunghezza d’onda (o le lunghezze d’onda) a cui il nostro sistema è meno sensibile. Dato questo valore è necessario cercare sul mercato lampade LED con spettro di emissione centrato in quella lunghezza d’onda. Se si utilizza un filtro a banda stratta di tipo Hα, ad esempio, un LED di colore blu sarà sicuramente la scelta ottimale. Se invece utilizziamo un filtro antinquinamento luminoso, un LED di colore prossimo alla riga del sodio o del rosso con lunghezza d’onda maggiore di 700 nm possono essere soluzioni più che valide.

LED colorato (o RGB impostato su un colore primario) a confronto con la risposta spettrale di un filtro anti-inquinamento luminoso IDAS NGS1. L’area colorata, seppur piccola, rappresenta il possibile disturbo generato dall’illuminazione ambientale.

Per ciascuno dei casi illustrati, avere un LED dimmerabile può essere utile al fine di poter variare il livello di luminosità ambientale. Il modo migliore per determinare quanto il nostro sistema sia sensibile al tipo di luce con cui vogliamo illuminare l’ambiente circostante è quello di fotografare un oggetto presente nell’ambiente stesso. La sorgente di luce migliore sarà quella che darà il minore contributo in tutti e tre i canali ripresi. Di seguito sono riportate delle riprese effettuate con camera astronomica CentralDS 600D II Pro e filtro Astronomik Hα da 2 pollici e diversi tipi di illuminazione. Come si vede il LED RGB WiZ A.E27 utilizzato in modalità colore primario (rosso) è quello che ha dato i risultati migliori con un debole disturbo nel canale rosso e totale assenza nei canali verde e blu.

Confronto tra le varie fonti di illuminazione ambientale (canale rosso).

Confronto tra le varie fonti di illuminazione ambientale (canale verde).

Confronto tra le varie fonti di illuminazione ambientale (canale blu).

 




Unistellar eVscope eQuinox

Unistellar è un’azienda di francese fondata nel 2015 allo scopo di realizzare telescopi completamente automatizzati in grado di garantire l’osservazione del cielo notturno anche a chi non dispone di un vero e proprio know-how astronomico. In questo articolo andremo in particolare a presentare il telescopio Unistellar eVscope eQuinox, distribuito in Italia da Auriga a partire dal 2022.

Lo Strumento

Dal punto di vista ottico, Unistellar eVscope eQuinox è un telescopio Newton con uno specchio primario del diametro di 114 mm (figura 1).

Figura 1: il telescopio Unistellar eVscope eQuinox

Lo specchio secondario è assente e, nel fuoco del primario è situato un sensore CMOS a colori non raffreddato Sony Exmor IMX224. Le dimensioni effettive del sensore sono 4.8 x 3.6 mm mentre il lato del singolo pixel quadrato è 3.75 µm. Il numero di pixel utilizzati per la ripresa delle immagini sono pertanto 1280 x 960 ovvero 1.23 Megapixel. Questo sensore è caratterizzato da un rumore estremamente basso ed un’alta sensibilità alla luce visibile ed al vicino infrarosso (NIR technology). Malgrado le immagini prodotte dal sensore abbiano dimensioni 1280 x 960 pixel, Unistellar eVscope eQuinox genera immagini da 2560 x 1920 pixel, ottenuta attraverso processi di interpolazione software. Il sensore è montato fisicamente all’interno di un tubo metallico nero con filettatura di tipo C-mount.

La lunghezza focale del telescopio è 450 mm e pertanto l’apertura risulta essere f/3.9. L’assenza dello specchio secondario e la sua sostituzione con un sensore digitale dovrebbe portarvi alla conclusione che con Unistellar eVscope eQuinox non è possibile osservare il cielo notturno utilizzando oculari o altri dispositivi ottici. L’osservazione, vedremo in seguito, è pertanto possibile unicamente attraverso dispositivi mobile quali smartphone e tablet.

Il campo di vista (FOV) ripreso dal sensore è 27 x 37 arcmin con una risoluzione dell’immagine pari a 1.72 arcsec/pixel. Il processo di ingrandimento digitale dell’immagine però dimezza questo fattore a 0.86 arcsec/pixel. Il fattore di crop per il sensore Sony Exmor IMX224 è 7.21 che si traduce in una focale effettiva di 3244 mm.

Per verificare quanto dichiarato fino ad ora abbiamo fatto analizzare al software PixInsight un’immagine della nebulosa planetaria M57 ripresa da Varenna (LC) il 19/07/2022 (figura 2).

Figura 2: nebulosa planetaria della Lira (M57) ripresa da Varenna (LC) il 19/07/2022 con Unistellar eVscope eQuinox. Tempo di integrazione cinque minuti.

Il risultato ottenuto è riportato in figura 3. Come si può notare il FOV calcolato da PixInsight, 27 arcmin 25.5 arcsec x 36 arcmin 34 arcsec è perfettamente in accordo con quanto riportato dal produttore. Come si vede la lunghezza focale misurata è 902.51 mm, il doppio di quella del telescopio. Questo è dovuto al fatto che le immagini risultano quattro volte più grandi di quelle native del sensore. La risoluzione invece è in accordo con quanto da noi riportato, con un valore misurato di 0.857 arcsec/pixel.

Figura 3: risultato dell’applicazione dell’algoritmo “Image Plate Solver” di PixInsight all’immagine ripresa con Unistellar eVscope eQuinox riportata in figura 2.

Unistellar eVScope eQuinox è dotato di montatura altazimutale al cui interno è stato montato un piccolo computer. Scopo di quest’ultimo è il controllo della montura, l’acquisizione e l’elaborazione delle immagini nonché il salvataggio delle stesse su una memoria interna delle dimensioni di 64 GB. Altra fondamentale funzione è quella di hot-spot Wi-Fi con cui è possibile collegare fino dieci dispositivi mobili contemporaneamente. Durante i nostri test la connessione ad Unistellar eVscope eQuinox è risultata stabile su entrambe i dispositivi collegati (smartphone Motorola Moto G60s e tablet Lenovo Tab M10 HD seconda generazione) anche a metri di distanza dello strumento e con ostacoli sulla linea di vista.

I movimenti del telescopio in azimut ed altezza sono fluidi e precisi seppur abbastanza rumorosi. La velocità media dei motori stimata dai nostri test utilizzando il moto libero dalla App Unistellar (v.2.0.2) è pari a circa 0.26°/sec. Non è possibile dividere l’ottica dalla montatura che risulta pertanto essere un corpo unico.

Il sistema montatura altazimutale – telescopio è fissato grazie a due comode manopole su un cavalletto robusto a tre sezioni dotato di bolla rotonda del peso di 2 kg (vedi figura 4). Nell’esemplare in esame, Unistellar fornisce una coppia di manopole di ricambio.

Figura 4: il robusto cavalletto di Unistellar eVscope eQuinox con la pratica bolla.

Unistellar fornisce anche un set di chiavi utili per ogni esigenza: dalla manutenzione dello strumento, al serraggio delle viti del cavalletto alla collimazione del telescopio. Nei nostri test il cavalletto è sempre stato utilizzato su terreni stabili in cemento, pietra o piastrelle pertanto non abbiamo informazioni riguardo alla stabilità del sistema nel caso di terreni sterrati o coperti da vegetazione.

A corredo è stato fornito un alimentatore con connettore USB-C al fine di caricare la batteria di Unistellar eVscope eQuinox montata internamente alla base della montatura altazimutale. Il connettore dell’alimentazione va inserito nella rispettiva presa USB-C disposta sotto il braccio della montatura altazimutale (figura 5A). Una posizione decisamente scomoda in quanto è necessario chinarsi per identificare la porta ove inserire il connettore.

Figura 5: A) il connettore USB-C per la ricarica delle batterie di Unistellar eVscope eQuinox. B) l’indicatore led di ricarica.

Inserito il connettore il tasto di accensione del telescopio, situato a lato del braccio della montatura altazimutale inizia a lampeggiare al fine di segnalare lo stato di ricarica (figura 5B). Nel modello in esame questo non è successo alla prima ricarica dove l’indicatore led è rimasto spento.

Nei pressi della porta USB-C è disponibile anche una porta USB tradizionale per la ricarica di dispositivi quali smartphone e/o tablet. Durante i nostri test la batteria di Unistellar eVscope eQuinox ha permesso circa sette ore di osservazioni utilizzando in modo intensivo motori e camera. Questo valore è ben al di sotto delle 12 ore dichiarate da Unistellar. Facciamo notare come Unistellar eVscope eQuinox non si riporti automaticamente in home position quando sta per terminare la propria batteria ma si blocca nella posizione corrente (figura 6). Inserire un alimentatore esterno non permette di muovere istantaneamente il telescopio. È necessario, pertanto, attendere un tempo piuttosto lungo affinché la batteria interna raggiunga uno stato di carica sufficiente per muovere il telescopio. Questo perché l’alimentazione del computer di bordo non è in parallelo a quello della batteria ma in serie. Inoltre, come riportato anche in bibliografia, l’indicatore di carica fornito dalla App di controllo del telescopio non è affidabile riportando o sempre “Full” (carica 100%) oppure passando da meno di tre quarti (carica < 75%) a zero in meno di mezz’ora.

Figura 6: Unistellar eVscope eQuinox bloccato nella posizione corrente al completo esaurimento della batteria. Nel caso in esame non era più possibile smontare lo strumento in sicurezza richiedendo l’utilizzo di un alimentatore esterno ed un tempo sufficiente per raggiungere uno stato di carica minimo delle batterie interne.

La App gratuita di controllo di Unistellar eVscope eQuinox è disponibile in sola lingua inglese con il nome di Unistellar. È compatibile con dispositivi Apple e Android. Nei nostri test, dove non indicato diversamente, abbiamo utilizzato la versione per Android Unistellar v.2.0.2, rilasciata il 21 luglio 2022. Non si sono osservate incompatibilità con i dispositivi utilizzati né crash inaspettati dell’applicazione. Si riporta un numero esiguo di volte (< 5%) in cui l’applicativo rimane bloccato sulla schermata di avvio (figura 7). In tal caso è necessario chiudere e riaprire l’app.

Figura 7: schermata di avvio dell’applicativo Unistellar

Il telescopio Unistellar eVscope eQuinox in esame mi è stato consegnato collimato. Al fine di testare la collimazione abbiamo scollimato il telescopio volontariamente per collimarlo di nuovo utilizzando le due viti di collimazione presenti nella culatta del telescopio e la chiave fornita nel kit da Unistellar (figura 8A). Il processo di collimazione è abbastanza noioso e richiede una mano sufficientemente esperta. La procedura che abbiamo seguito durante i test è la seguente:

  1. Puntare una stella sufficientemente luminosa (Vega nel nostro caso).
  2. Sfuocare la stella.
  3. Regolare manualmente i parametri dell’esposizione (gain, tempo di esposizione) al fine di visualizzare bene l’immagine del secondario e dei relativi supporti.
  4. Movimentare lentamente le due viti di collimazione fintanto che l’immagine del secondario non sia centrata e i relativi supporti appaiano sufficientemente nitidi (figura 8B).

Figura 8: A) viti di regolazione dello specchio primario utilizzate in fase di collimazione del telescopio Unistellar eVscope eQuinox. B) immagine sfuocata di Vega al termine del processo di collimazione.

La parte più tediosa di questo processo è legata al fatto che, quando viene stratta o allentata una vite di collimazione, la stella si muove uscendo talvolta dal campo. Un buon compromesso è muovere la vite di collimazione con una mano e nel frattempo, con l’altra, utilizzare la app Unistellar per mantenere la stella nel campo di vista. Un processo che richiede pazienza e precisione e che comunque viene effettuato raramente. Infatti, durante tutti gli spostamenti effettuati Unistellar eVscope eQuinox ha sempre mantenuto un buon grado di collimazione dimostrando un’ottima qualità meccanica, specialmente se si considera che l’ottica è un Newton con apertura f/3.9.

Malgrado i due processi di collimazione del telescopio (quello fatto in fabbrica e quello fatto da noi durante i test), lo strumento esaminato ha sempre mostrato del coma asimmetrico. In particolare, le stelle in alto a sinistra del campo mostravano un evidente coma rispetto alle altre presenti nel campo come visibile in figura 9.

Figura 9: A) Immagine dell’ammasso aperto M11 ripreso con Unistellar eVscope eQuinox il 03 agosto 2022 da Briosco (MB). Tempo di esposizione cinque minuti. B) zoom dei quattro angoli dell’immagine. Il settore alto-sinistra è quello che soffre maggiormente di coma.

Configurazione ed utilizzo

Per iniziare ad utilizzare Unistellar eVscope eQuinox è necessario disporre il treppiede su un terreno stabile e utilizzare la bolla rotonda per mettere in bolla il cavalletto e quindi lo strumento. A questo punto si inserisce il sistema ottica-montatura nell’apposito foro prestando attenzione a non muovere il treppiede e si fissa il tutto utilizzando le due apposite manopole (figura 10).

Figura 10: le due manopole di fissaggio del sistema telescopio-montatura con il treppiede.

Malgrado i 7 kg dello strumento l’operazione avviene in modo piuttosto agevole.

Senza rimuovere il tappo dello strumento lo accendiamo premendo l’apposito tasto (figura 11A). Un led ci indicherà che lo strumento è acceso e dopo pochi secondi si potrà vedere la rete Wi-Fi di Unistellar eVscope eQuinox nella lista delle reti disponibili del vostro dispositivo mobile (figura 11B). Il nome di questa rete è eVscope seguito dal numero seriale dello strumento. Il nome della rete può comunque essere modificato utilizzando l’app Unistellar. Per utilizzare Unistellar eVscope eQuinox è pertanto necessario agganciarsi a questa rete Wi-Fi con il nostro dispositivo mobile (smartphone o tablet).

Figura 11: A) Il tasto di accensione dello strumento. B) La rete Wi-Fi generata da Unistellar eVscope eQuinox a cui è necessario agganciarsi al fine di utilizzare il telescopio.

Una volta connessi ad Unistellar eVscope eQuinox, sarete pronti per avviare la app Unistellar. È evidente che non potrete utilizzare altre reti Wi-Fi con il vostro dispositivo mobile quando siete connessi al telescopio. Durante i nostri test abbiano inoltre notato come non sia possibile connettersi al telescopio se l’antivirus del vostro dispositivo mobile è configurato ad un livello di protezione elevato o se avete attiva una VPN. In tal caso vi suggeriamo di modificare le impostazioni del vostro antivirus (al limite disattivandolo se non avete attive connessioni ad internet) o spegnere la VPN.

Una volta avviata l’applicazione Unistellar, con questa sarà possibile:

  • Puntare un oggetto di quelli a catalogo mostrati come una lista direttamente nella home page dell’applicativo.
  • Muovere manualmente il telescopio e modificare le impostazioni della camera di ripresa.
  • Configurare il proprio strumento.
  • Attivare il programma di ricerca scientifica.
  • Accedere all’album delle immagini riprese con Unistellar eVscope eQuinox.

Ovviamente la prima operazione da compiere è la configurazione del proprio strumento. Innanzitutto, bisogna dire all’applicativo che voi siete colui che gestirà il telescopio (master) e non un utente del pubblico (slave), il quale potrà “solo” osservare e salvare le immagini acquisite da Unistellar eVscope eQuinox. In linea di principio questa è la configurazione di “default” per il primo dispositivo mobile connesso ma è capitato raramente durante i test che l’applicazione si dimenticasse del vostro ruolo. Se siete un utente slave e volete salire al rango di master vi verrà chiesto il numero seriale dello strumento.

Tra le numerose configurazioni presenti, le seguenti le riteniamo estremamente importanti:

  • Indicare la qualità del cielo da cui state osservando il cielo scegliendo tra City (cielo urbano ovvero alto inquinamento luminoso), Suburb (cielo sub-urbano o a medio inquinamento luminoso) e Countryside (cielo rurale o a basso inquinamento luminoso). Nei nostri test abbiamo utilizzato tutte e tre le configurazioni avendo osservato da Briosco (MB) con cielo ad alto inquinamento luminoso (Bortle classe 6), da Varenna (LC) con cielo a medio inquinamento luminoso (Bortle classe 4) e da Courmayeur (AO) con cielo a basso inquinamento luminoso (Bortle classe 3). Non è indicato come questa opzione influisce sugli algoritmi di riduzione dell’inquinamento luminoso ma è bene settarla nel modo corretto per ottenere i risultati previsti dagli ingegneri di Unistellar.
  • Altra informazione importante è la limitazione della finestra di cielo visibile nel caso in cui siano presenti ostacoli o nel caso in cui si stia usando Unistellar eVscope eQuinox collegato alla rete elettrica.
  • Possiamo indicare il formato delle immagini (circolari, rettangolari o entrambe) e delle coordinate riportate in esse, riprese da Unistellar eVscope eQuinox.
  • Possiamo dire se invertire le direzioni del joystick di controllo della movimentazione manuale dello strumento oltre attivare/disattivare la vibrazione che il vostro dispositivo mobile farà ogni volta che il telescopio verrà movimentato manualmente. Si consiglia di disattivare questa ultima funzionalità al fine di ridurre il consumo della batteria del vostro dispositivo mobile.
  • Mantenendo il tappo di protezione sul telescopio è possibile calibrare il sensore. Questa operazione permetterà ad Unistellar eVscope eQuinox di raccogliere un certo numero di immagini al fine di stimare il rumore termico ed elettronico della camera Sony Exmor IMX224. Non vengono fornite specifiche dall’azienda e pertanto quello che possiamo immaginare è che il processo di calibrazione del sensore consista nella produzione di quello che in astrofotografia viene chiamato master dark e master bias. Possiamo anche pensare che, data la posizione fissa del sensore, in fase di produzione dello strumento venga prodotto anche un master flat per la riduzione della vignettatura dalle immagini.

Una volta calibrato il sensore, potete rimuovere il tappo dallo strumento e muoverlo centrando una stella abbastanza luminosa. Questa ci permetterà di effettuare una prima messa a fuoco dello strumento. La movimentazione può essere fatta attraverso l’app Unistellar. Per un neofita non è semplicissimo puntare lo strumento verso una stella non avendo questo un cercatore integrato. D’altronde è anche vero che basta puntare lo strumento in una posizione a caso del cielo per avere una stella sufficientemente luminosa per una prima messa a fuoco. Avere un cercatore integrato poteva comunque essere uno strumento utile come dimostrano le numerose immagini presenti in rete di cercatori “attaccati creativamente” da numerosi utenti ad Unistellar eVscope eQuinox (vedi figura 12).

Figura 12: cercatore affrancato a Unistellar eVscope eQuinox (foto gruppo Facebook eVscope & eQuinox Users Global, tutti i diritti sono riservati)

Per mettere a fuoco la stella utilizziamo la comoda ghiera di messa a fuoco mostrata in figura 13. La movimentazione è fluida e garantisce una buona messa a fuoco in brevissimo tempo.

Figura 13: ghiera di messa a fuoco di Unistellar eVscope eQuinox

Una volta che abbiamo messo a fuoco grossolanamente il nostro strumento proseguiamo con la calibrazione della posizione. Questa può essere fatta sempre utilizzando la app Unistellar. Una volta avviato il processo di calibrazione della posizione Unistellar eVscope eQuinox effettuerà una risoluzione del campo ripreso nella posizione corrente attraverso il processo che in astrofotografia prende il nome di plate solving. Risolta la posizione corrente il telescopio proverà a muoversi e risolvere altre porzioni di cielo finché non raggiungerà l’accuratezza richiesta. Al termine del processo, la app Unistellar avviserà l’utente che la calibrazione è andata a buon fine. Da quel punto in poi Unistellar eVscope eQuinox sarà in grado di puntare qualsiasi oggetto della volta celeste, sia esso presente nel catalogo (puntamento diretto) o no (puntamento manuale tramite coordinate celesti). Durante i nostri test la calibrazione della posizione è fallita praticamente sempre (> 70%) se la si fa quando il telescopio è in posizione di home. Questo è un problema noto in molti sistemi altazimutali a puntamento automatico. Se invece si muove lo strumento in altezza di almeno 10-15° allora la calibrazione della posizione durante i nostri test non è mai fallita. Ovvio che fallire la posizione di default all’avvio del telescopio non ci sembra personalmente una scelta saggia. In ogni caso, come appena descritto, il problema è facilmente risolvibile.

Una volta calibrata la posizione si prosegue con la messa a fuoco precisa dello strumento. Per fare questo chiediamo all’App Unistellar di puntare una stella luminosa (come ad esempio Arturo, Vega o Altair utilizzate nei nostri test). Unistellar eVscope eQuinox in un paio di minuti andrà a puntare la nostra stella mettendola al centro del campo ripreso dalla camera Sony Exmor IMX224. Togliamo quindi la maschera di Bahtinov dalla parte interna del tappo dello strumento e montiamola come mostrato in figura 14.

Figura 14: la maschera di Bahtinov montata su Unistellar eVscope eQuinox.

A questo punto la stella mostrerà l’immagine di diffrazione della maschera. Vi consigliamo di utilizzare le impostazioni manuali della camera per ridurre i tempi di esposizione in modo da migliorare la qualità dell’immagine di diffrazione della maschera. Utilizzando la ghiera di messa a fuoco andremo a modificare tale immagine fino a raggiungere la condizione ideale riportata in figura 15.

Figura 15: Immagine di diffrazione della maschera di Bahtinov di Unistellar eVscope eQuinox. A) Immagine ripresa abbassando il tempo di esposizione della camera affinché sia più evidente la simmetria indotta da una buona messa a fuoco. B) Immagine ripresa con le impostazioni automatiche della camera.

Una volta che l’immagine di diffrazione è simmetrica, rimuoviamo la maschera: il telescopio è pronto per essere utilizzando al massimo delle proprie potenzialità.

L’app Unistellar ci permette a questo punto di scegliere tra gli elementi a catalogo, che possono essere ordinati per:

  • Raccomandati da Unistellar,
  • Ordine di apparizione del cielo,
  • Ordine alfabetico,
  • Ordine di prossimità dell’oggetto attualmente visualizzato.

Il tutto può essere ulteriormente filtrato per visibilità o per tipologia di oggetto scegliendo tra:

  • Pianeti,
  • Asteroidi,
  • Galassie,
  • Nebulose,
  • Ammassi di stelle,
  • Stelle,
  • Comete,
  • Altro.

Ovviamente poi è stato previsto un tasto cerca per cercare manualmente un oggetto indicandone il nome o il numero di catalogo.

Una volta selezionato l’oggetto desiderato, la app ci fornirà una breve descrizione dello stesso, la sua posizione all’interno della costellazione che lo contiene (figura 16) e premendo il tasto “go to” Unistellar eVscope eQuinox si muoverà e punterà l’oggetto desiderato mettendolo al centro del campo di ripresa.

Figura 16: Parte delle informazioni fornite dall’app Unistellar relative all’oggetto celeste selezionato.

Sulla parte di selezione degli oggetti da parte dell’App Unistellar ci permettiamo di riportare alcuni aspetti comici ed altri invece più critici:

  • Unistellar consiglia come l’oggetto più interessante del cielo la stella Fawaris nella costellazione del Cigno. Tutti si stanno ancora chiedendo perché 🙂
  • Nei filtri è possibile selezionare le “Nebulose” senza distinguere tra planetarie e diffuse.
  • Nei filtri è possibile selezionare gli “Ammassi stellari” senza distinguere tra ammassi aperti e globulari.
  • Non è possibile filtrare per costellazione. L’assenza di questa opzione pesa molto durante una serata osservativa in cui un utente potrebbe voler “vedere” tutti gli oggetti presenti in una determinata costellazione.

A parte il primo punto, gli altri tre generano un problema abbastanza serio di usabilità. Durante i nostri test spesso si è passati attraverso una seconda applicazione per decidere quale oggetto osservare.

Abbiamo infine provato durante i nostri test a puntare un oggetto utilizzando le sue coordinate ed il risultato è stato soddisfacente con l’oggetto posto al centro del campo inquadrato.

Una volta che Unistellar eVscope eQuinox punta un oggetto, questo viene ripreso in tempo reale, modalità live view, dalla camera Sony Exmor IMX224. È possibile, inoltre, avere una enhanced vision dell’oggetto, ovvero invece che osservare l’immagine in tempo reale il computer a bordo di Unistellar eVscope eQuinox andrà ad integrare le singole immagini. Ad intervalli di tempo fissati, gli utenti vedranno quindi sulla loro app l’immagine dell’oggetto celeste con un dettaglio via via migliore all’aumentare del tempo di integrazione. Questa tecnica è nota in astrofotografia con il nome di live stacking. Live view e live stacking forniscono entrambi immagini “vive” nel senso che vengono generate nello stesso momento in cui voi siete di fronte al vostro telescopio sotto un cielo stellato. Durante i nostri test abbiamo utilizzato sia la modalità live view che live stacking. Nel secondo caso è stato possibile ottenere ottime immagini di oggetti del profondo cielo come mostrato in figura 17.

Figura 17: Esempio di immagine catturata in modalità “enhanced vision” da Unistellar eVscope eQuinox da Varenna (LC).

Le immagini acquisite possono essere salvate sul vostro dispositivo mobile e visualizzate nella relativa galleria dell’app Unistellar. Sempre dalla galleria è possibile inviare le vostre immagini astronomiche via bluetooth, e-mail o condividerla sui social network.

Durante i test effettuati abbiamo sperimentato anche la modalità ricerca scientifica analizzando l’attività cometaria della cometa C/2017 K2 (PANSTARRS). L’app Unistellar guida così l’utente alla misura della luminosità della cometa e all’invio dei dati raccolti ai programmi di ricerca dedicati. Questa funzionalità prevede la registrazione al sito Unistellar dove troverete anche vere e proprie campagne di misure amatoriali.

Acquisizione ed analisi delle immagini

Le immagini acquisite dai tre luoghi di osservazione (Varenna, Briosco, Courmayeur) sono mostrate nella galleria seguente:

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La magnitudine raggiunta nelle riprese di M27 è stata 15.55 (Figura 18) con 5 minuti di ripresa da cieli urbani o sub-urbani in accordo con quanto riportato da Unistellar (magnitudine limite da cieli inquinati < 16). Purtroppo, i test effettuati da cieli più bui non hanno permesso di eseguire pose più lunghe di due minuti per motivi che verranno illustrati in seguito.

Figura 18: M57 ripresa rispettivamente da A) Briosco, B) Varenna e C) Courmayeur.

Durante l’utilizzo il telescopio ha sempre puntato ed inseguito correttamente gli oggetti celesti ad eccetto della serata di test a Courmayeur dove il telescopio ha mostrato seri problemi di inseguimento come mostrato nel video seguente:

Dopo un periodo di corretto inseguimento della galassia di Andromeda (M31), Unistellar eVscope eQuinox ha iniziato a derivare senza nessun apparente motivo.

Una cosa analoga è successa durante la serata di test a Briosco dove, dopo aver puntato Saturno il telescopio non era più in grado di puntare altri oggetti. Non siamo stati in grado di determinare la natura di tale problema che potrebbe essere software o hardware. In letteratura si trovano testimonianze di utenti che hanno avuto le stesse problematicità associate spesso ad aggiornamenti software. Nel nostro caso abbiamo utilizzato Unistellar eVscope eQuinox con versioni della app Unistellar 2.0.2 e 2.0.1. L’upgrade/downgrade del software nel nostro caso non ha avuto effetto. In entrambe i casi la app diceva che la batteria interna era completamente carica ma, come detto in precedenza, questo indicatore non è sempre affidabile. Quello che non è chiaro è perché solo alcuni utenti (tra cui noi) hanno sperimentato questo difetto.

Infine, abbiamo “osservato” la Luna e Saturno con Unistellar eVscope eQuinox. Le immagini acquisite sono riportate nella galleria seguente:

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Conclusioni

Unistellar eVscope appartiene ad una nuova classe di strumenti astronomici dedicati alla divulgazione scientifica. L’aumento indiscriminato dell’inquinamento luminoso ha posto un grosso limite alle osservazioni pubbliche che si sono ridotte alla sola osservazione visuale di Luna e pianeti. Osservare ad occhio nudo ammassi stellari, nebulose e galassie è diventato praticamente impossibile dalle grandi città. Dato che l’inquinamento luminoso è spesso associato ad una elevata densità abitativa, la maggior parte dei possibili nuovi appassionati di Astronomia non potranno mai aver accesso alla visione del profondo cielo se non spostandosi di decine e decine di chilometri dalle loro città.

Unistellar eVscope eQuinox cerca di limitare i danni fornendo immagini di oggetti del profondo cielo acquisite dalla città durante le osservazioni pubbliche. L’occhio umano viene così sostituito da quello elettronico mantenendo comunque vivo il concetto di qui ed ora. Con questo Unistellar eVscope non minimizza il problema dell’inquinamento luminoso ma cerca di appassionare il maggior numero di persone all’Astronomia al fine di convincere la popolazione che osservare il cielo è bello e per farlo con i propri occhi è necessario ridurre l’inquinamento luminoso.

Questa lunga introduzione è stata scritta proprio per indicare il target di Unistellar eVscope ovvero la divulgazione astronomica attraverso l’osservazione degli oggetti del profondo cielo.

Ovviamente una osservazione pubblica per essere completa dovrà affiancare ad Unistellar eVscope un telescopio ottico con cui osservare Luna e pianeti, soggetti ancora visibili ad occhio nudo dalle città e che esulano dallo scopo di Unistellar eVscope eQuinox come i nostri test hanno dimostrato. Le immagini di Luna e Saturno riprese infatti sono decisamente inferiori all’osservazione diretta ad occhio nudo.

Unistellar eVscope eQuinox inoltre è uno strumento estremamente portatile. Un astrofotografo esperto sarebbe infatti capace di produrre un sistema simile a Unistellar eVscope eQuinox con un budget decisamente inferiore, ma sfido chiunque a farlo nella maniera così compatta come è riuscita a realizzarlo Unistellar. Infatti, Unistellar eVscope eQuinox è costituito solo da due parti ed un dispositivo mobile (tablet o cellulare).

Molto può essere ancora fatto in termini di usabilità dell’app Unistellar, ma la semplicità di utilizzo dello strumento è sotto gli occhi di tutti. In pochi minuti lo strumento è pronto per “osservare” il cielo.

Dal punto di vista tecnico, la camera potrebbe migliorare soprattutto nella sua dinamica. Le immagini risultato “poco sature” e le stelle praticamente prive di colore. Gli algoritmi di sottrazione dell’inquinamento luminoso e l’inquinamento luminoso stesso sicuramente sono i maggiori responsabili di questa scarsa dinamica.

Il diametro dello strumento è adatto al suo scopo, contenendo il peso dello strumento e migliorandone la trasportabilità. La meccanica è all’altezza anche se la collimazione degli strumenti è apparsa piuttosto difficoltosa e credo sia uno degli aspetti più limitanti di questo strumento. Evitare la collimazione utilizzando schemi ottici diversi (rifrattore/catadiottrico) sarebbe stata, a nostro avviso, una scelta migliore.

Il cavalletto, la maschera di Bahtinov e la connettività sono aspetti decisamente positivi di questo strumento. Si sente comunque la mancanza di un cercatore integrato (sempre per mantenere a due il numero di “pezzi”) e di un paraluce retrattile per evitare l’appannamento del sensore durante le notti spesso umide delle città. Anche la possibilità di montare un filtro antinquinamento luminoso potrebbe aiutare anche se ovviamente richiederebbe uno studio dal punto di vista degli algoritmi di calibrazione delle immagini.

Aspetti negativi riscontrati durante i test sono stati sostanzialmente due:

  • Software: ancora molto primitivo, soprattutto in termini di usabilità. Configurazioni, movimento manuale e puntamento degli oggetti sono ancora disposti in modo confuso all’interno dell’app Unistellar. Inoltre, per avere una maggiore diffusione, la app dovrebbe essere tradotta in un certo numero di lingue. Sarebbero graditi anche tool che permettano ai neofiti di collimare e mettere a fuoco lo strumento, possibilmente integrati nell’app Unistellar.
  • Affidabilità: uno strumento pensato per serate osservative pubbliche deve essere affidabile. Non è quindi accettabile che il software a bordo non garantisce una corretta lettura del livello della batteria, che lo strumento si blocchi in una posizione diversa dalla home position o che ad un certo punto non insegua/centri più gli oggetti celesti. I nostri test mostrano che l’esemplare in esame è risultato poco affidabile. La non riproducibilità dei problemi rende questi ancora più gravi per uno strumento divulgativo. I casi in letteratura con problemi analoghi sono fortunatamente pochissimi e quindi, molto probabilmente, siamo caduti in uno di questi pochi casi sfortunati.

 Infine, è interessante notare come sui social network si legga di moltissimi casi di persone che hanno comprato Unistellar eVscope non per fini divulgativi ma per un utilizzo personale. In particolare, è piacevole notare l’entusiasmo di chi, senza conoscere nulla di astrofotografia e/o astronomia, sia riuscito a ottenere immagini “ricordo” di oggetti del profondo cielo. Lo stesso entusiasmo che avevo io quando ho iniziato ad osservare e fotografare il cielo.

In conclusione, Unistellar eVscope eQuinox non è un telescopio ma un fiammifero capace di accendere nelle persone la fiamma della passione per il cielo notturno.

In tabella riportiamo i pro e i contro di questo strumento:

PRO CONTRO
Strumento in grado di permette la visione di oggetti del profondo cielo da cieli inquinati (urbani, sub-urbani). Necessità di collimazione dello strumento. Malgrado questo è presente nel modello in esame un coma residuo piuttosto fastidioso.
Compattezza dello strumento costituito da due sole parti. App Unistellar ancora in uno stato semi-embrionale. Migliorie necessarie in termini di usabilità.
Precisione nel puntamento ed inseguimento degli oggetti celesti. Non propriamente adatto alla ripresa di Luna e pianeti.
Possibilità di effettuare misure astronomiche in modo semplice e veloce. Non presente un cercatore ed un paraluce integrato utili per il puntamento manuale degli oggi e per prevenire l’appannamento del sensore.
Una volta collimato lo strumento non è richiesta nessuna conoscenza tecnica di astrofotografia per riprendere immagini astronomiche. Numero di connessioni contemporanee allo strumento piuttosto limitato (10). In un evento pubblico sono solitamente presenti > 50 persone.
Ideale per la divulgazione astronomica garantendo un maggiore numero di serate a disposizione del pubblico e permettendo di spiegare concetti astronomici (e astrofotografici) visionando immagini del cielo riprese “qui ed ora”. Colori delle immagini riprese piuttosto slavati ed a bassa saturazione.
Strumento leggero e compatto. Inaffidabilità del modello in esame sia in termini di valutazione dello stato di carica della batteria che di incapacità talvolta di puntare/inseguire gli oggetti (leggere recensione per maggiori dettagli).

Tra i contro non abbiamo riportato il prezzo che al momento è di 2799 €. Al netto della strumentazione a bordo, infatti, questo è piuttosto elevato ma dobbiamo ricordare che esso include anche il processo di ricerca e sviluppo, progettazione ed ingegnerizzazione dello strumento oltre alla manutenzione del programma di ricerca amatoriale presente sul sito internet di Unistellar. Questi ultimi fattori pesano tantissimo in quanto Unistellar eVscope eQuinox ha un design unico ed una compattezza senza pari sul mercato e questo comporta dei costi non indifferenti.




L’illuminazione nel Medioevo

Con la caduta dell’impero romano e l’inizio del Medioevo, le città andarono via via spopolandosi a scapito delle campagne. Le strade vennero lasciate all’incuria e coperte dalla vegetazione, i terreni incolti e i boschi ripresero lentamente il possesso del paesaggio. Le città e i villaggi sopravvissuti furono circondati da mura, inizialmente costruite in legno e successivamente in pietra, allo scopo di difendersi dalle invasioni barbariche. Gli sviluppi tecnologici in questo periodo furono scarsi e anche in ambito di illuminazione notturna non ci furono progressi rispetto al periodo romano. I castelli e le abitazioni medioevali erano illuminati da semplici candele che piano piano andarono a sostituire le vecchie lucerne. Purtroppo, le candele in caso di vento non potevano essere utilizzate in ambienti esterni. Proprio per questo motivo vennero inventate a partire dal 1200 le lanterne: dei “contenitori per candele” costituiti da due dischi di legno, di cui quello superiore bucato al fine di far uscire il calore, distanziati da piccole aste. Il tutto era circondato da una schermatura in pergamena, pelli di animali, corno, tessuto di lino ed in un periodo più tardo in vetro. Dal lato del disco bucato veniva infine fissato un sostegno che poteva servire per trasportare la lanterna o appenderla a grandi aste o pali per l’illuminazione di ambienti esterni (generalmente campi militari).

Figura 1: Lanterna raffigurata nel manoscritto Speculum humanae salvationis scritto nel 1427 e conservato nel convento benedettino di Sarnen, in Svizzera.

Talvolta la candela all’interno della lanterna veniva sostituita con delle lucciole, capaci di generare una luce decisamente più debole ma continua.

Come per l’epoca romana, anche nel Medioevo la notte veniva utilizzata come periodo di riposo. Le porte delle mura che circondavano le città venivano chiuse al tramonto e riaperte all’alba. Le uniche fonti di illuminazione esterne erano i lanternarius, successivamente chiamati link boys nei paesi anglosassoni o codeghe nella repubblica di Venezia, che accompagnavano con una torcia i pedoni da un’abitazione ad un’altra. Il tutto a patto di pagare un piccolo compenso economico. L’inquinamento luminoso in quegli anni era davvero limitato per non dire inesistente. A partire dall’anno 1100 però, le città iniziarono nuovamente a ripopolarsi e con esse le attività commerciali quali i neonati pub e osterie che andarono lentamente a soppiantare le antiche taverne romane. L’aumento della densità di popolazione portò inevitabilmente all’incremento dei reati. Sebbene questi avvenivano principalmente di giorno (il 75% del totale secondo statistiche giudiziarie medioevali) la paura di ladri ed assassini andò a rinvigorire la vecchia e mai superata paura del buio. Le persone di notte iniziarono così a sentirsi meno sicure e, come migliaia di anni prima, ritornò la necessità di illuminare la notte.

Figura 2: l’utilizzo delle candele in epoca medioevale (1300-1325). Cortesia Medieval Miniatures

Inoltre, le poche persone che si muovevano di notte con i link boys così come le guardie che vigilavano le città, trovavano spesso non poche difficoltà ad orientarsi nel buio ambiente cittadino. Fu per questi motivi che verso la fine del Medioevo, nella Londra del 1417, il sindaco Henry Barton ordinò di appendere all’esterno delle case le proprie lanterne nelle sere d’inverno comprese tra il primo di novembre ed il 2 febbraio. Questo fu il primo tentativo di illuminazione pubblica urbana che però non riscosse molto successo, forse per il fatto che, dopo il tramonto tutte le attività lavorative chiudevano (ad eccezione di alberghi e bordelli) e le persone si richiudevano nelle proprie case per dormire o scambiare due chiacchiere con i famigliari intorno ad un focolare o alla luce delle candele. All’esterno rimanevano quindi quei pochi viaggiatori ed delinquenti, facilmente catturati dalle guardie che li potevano identificare facilmente nel buio cittadino.




Le origini dell’illuminazione

La paura del buio è considerata una fase normale dello sviluppo di un essere umano che può sfogare in nictofobia nel caso in cui l’esposizione al buio crea un’estrema reazione di stress capace di portare limitazioni alla vita di tutti i giorni. A differenza di quanto generalmente si pensi la nictofobia, in forma più o meno acuta, non è presente solo in età infantile ma si può prolungare all’età adolescenziale e adulta. Il buio viene avvertito dall’essere umano come indice di pericolo in quanto nasconde informazioni riguardanti l’ambiente circostante. L’esistenza della paura del buio è generalmente non esperienziale ma innata, causata da un precedente apprendimento associativo, diretto o indiretto. In particolare, fattori ambientali o di sviluppo giocano un ruolo importante nel progresso di questa fobia specifica. Da un punto di vista evoluzionistico, la paura del buio può essere stata funzionale al monitoraggio della minaccia poiché, allora come oggi, molti predatori cacciano di notte. Inoltre, tale paura rientra nell’ambito delle paure di ciò che non si può vedere, di ciò che non si conosce ovvero di ciò che si può nascondere nell’oscurità. 400 mila anni fa, nel lontano Paleolitico, l’uomo iniziò ad utilizzare il fuoco per illuminare i luoghi dedicati al riposo notturno, siano essi spazi aperti o caverne.

Figura 1: Il fuoco, la prima forma di illuminazione notturna utilizzata dall’uomo.

Questo fatto portò ad una riduzione sostanziale della sensazione di pericolo indotto dalla notte con un conseguente aumento del benessere personale dei primi uomini. Nel caso specifico, anche il pericolo effettivo venne ridotto in quanto il fuoco era davvero in grado di mantenere a distanza i tanto temuti predatori notturni. Fu quindi la paura del buio a spingere i nostri lontani antenati ad illuminare l’ambiente notturno generando la prima forma di inquinamento luminoso. Questo è infatti definito come “l’introduzione diretta o indiretta di luce artificiale nell’ambiente”. Ovviamente, anche in Italia i primi uomini utilizzarono il fuoco, essendo la nostra penisola già abitata nel Paleolitico. Quando parliamo di Italia però intendiamo solitamente le regioni centro-meridionali o costiere. In Lombardia infatti, le prime testimonianze dell’uomo le troviamo solo nel Paleolitico medio o superiore (meno di 120 mila anni fa) presso la grotta del Buco del Piombo (Erba – CO) dove alcuni cacciatori nomadi vi soggiornarono.  In ogni caso, nel Paleolitico, la popolazione mondiale era formata da un gruppo esiguo di individui, inizialmente nomadi, compresi tra 1 e 15 milioni. Un essere umano per ogni lampione oggi installato nella sola Italia.

La fonte di illuminazione consisteva nel fuoco vivo, sotto forma di focolari e rudimentali torce. Inizialmente il fuoco non veniva prodotto artificialmente ma generato da fenomeni naturali e conservato il più a lungo possibile. Proprio per questo motivo venne considerato da alcuni primi uomini come un elemento sacro. 

Figura 2: lo spettro di emissione di un focolare.

Dal punto di vista fisico, un focolare emette radiazione elettromagnetica caratterizzata da uno spettro continuo centrato nella radiazione infrarossa (vedi figura 2). Inoltre, è presente un intenso picco di emissione a 4300 nm (IR) dovuto alla presenza di CO2. Questo spiega perché il fuoco oltre ad essere una sorgente di luce è anche, e soprattutto, una sorgente di calore.

Intorno all’anno 10’000 a.C., l’uomo del Neolitico scoprì che l’utilizzo di grassi di origine animale o vegetale (olio) potevano mantenere vivo il fuoco per un tempo superiore rispetto al semplice legname. Nello stesso periodo venne inventata la terracotta con cui fu possibile creare recipienti per conservare, trasportare e cucinare gli alimenti. Anche la società umana era cambiata passando, poche migliaia di anni prima, dal nomadismo ad una vita sedentaria.

La nascita dei primi villaggi unita all’aumento della qualità degli utensili prodotti, portarono ben presto alla nascita delle prime lucerne costituite da recipienti quali corna, conchiglie o ciotole, riempite di grasso in cui veniva immersa una corda vegetale. Quest’ultima, una volta accesa, poteva conservare il fuoco per i focolari o essere utilizzata come fonte portatile di luce. Centinaia di simili manufatti vennero ritrovati nella grotta di Lascaux.

Figura 3: lucerna di epoca romana (100-200 d.C.) rivenuta a Angera (VA) – Museo Archeologico di Lecco

Fin dal Paleolitico medio, inoltre, l’uomo iniziò un processo che lo portò dall’essere preda a predatore assoluto. Questo ovviamente andrò via via diminuendo la paura del buio. Ma allora perché illuminare le notti? Il focolare cambiò lentamente la sua funzione passando da strumento di protezione dai predatori a strumento di aggregazione sociale. Infatti, intorno al fuoco si cucinava il cibo e lo si mangiava insieme. Le ore dopo il tramonto vennero così utilizzate per pianificare le attività del giorno successivo o per discutere delle esperienze passate. Fu proprio intorno ad un focolare che molto probabilmente nacque il linguaggio umano.

Nei quasi dieci mila anni che separano il Neolitico dall’antica Roma, l’uomo sviluppò tecniche via via sempre più complesse per la conservazione e la generazione del fuoco. Nel 500 a.C. vennero inventate le prime candele e torce, ovvero l’utilizzo di grasso animale solido in cui veniva immerso uno stoppino. Inoltre, era stato sviluppato il linguaggio parlato e scritto portando l’uomo ad abbandonare la preistoria per entrare nella storia. Anche i primi villaggi si trasformarono ben presto in città composte da abitazioni realizzate in pietra e legno. Proprio quest’ultimo materiale iniziò a diventare incompatibile con l’utilizzo del fuoco. Ben presto si svilupparono incendi di grandi dimensioni capaci di distruggere interi centri abitati. L’utilizzo di candele, torce, lucerne e focolari vennero così ridotti al minimo e la notte tornò ad essere buia. D’altronde la paura del buio era ora marginale e superata dalla paura per gli incendi. In epoca romana quindi ci si muoveva di notte solo in presenza della Luna Piena oppure, nel caso delle famiglie più ricche, accompagnati da servi dotati di torce o candele: i cosiddetti lanternarius. Se escludiamo le poche case nobiliari, le uniche sorgenti di inquinamento luminoso dell’epoca romana erano quindi i lanternarius.

Figura 4: le torce utilizzate dai lanternarius per accompagnare di notte i nobili romani.

Dal punto di vista fisico: lucerne, candele e torce sono sorgenti di radiazione elettromagnetica caratterizzata da uno spettro continuo centrato nella radiazione infrarossa analogo a quello mostrato in figura 2. Questo perché il processo di generazione della luce visibile è lo stesso del fuoco ovvero la combustione dell’ossigeno.




Cometa 46P/Wirtanen

Finalmente, dopo tre anni di attesa, una cometa particolarmente luminosa attraverserà i cieli invernali. Il suo nome è Wirtanen e venne scoperta nel 1948 dall’astronomo statunitense Carl Wirtanen. A differenza delle ultime comete luminose (PANSTARRS e Lovejoy), la Wirtanen è una cometa periodica ovvero ruota intorno al sole seguendo un’orbita ellittica che la porta ad oscillare tra una distanza minima dal Sole di 1 UA e una massima di 5 UA (dove 1 UA è la distanza media della Terra dal Sole). Il fatto che durante il suo moto orbitale la cometa non sfiora mai la nostra stella, la rende particolarmente poco attiva (e luminosa) e questo spiega il motivo del perché i suoi precedenti passaggi nei pressi del sole (uno ogni 5.4 anni) sono passati inosservati. Il 2018 però è un anno speciale per la Wirtanen. Infatti, seppur poco attiva, la cometa “sfiorerà” il nostro pianeta passando a soli 11 milioni e mezzo di chilometri di distanza. Questo non dovrà farci preoccupare (è sempre 30 volte più lontana della Luna) anzi, sarà la vicinanza della cometa alla Terra a farla apparire luminosa in cielo. Purtroppo, avvicinandosi così poco al Sole, la Wirtanen non svilupperà una coda imponente e si presenterà invece come un batuffolo luminoso (la chioma). La sua luminosità prevista la renderà visibile ad occhio nudo e, il 16 Dicembre 2018, si presenterà al mondo come la cometa più luminosa degli ultimi 20 anni. La Wirtanen doveva essere l’obiettivo della missione Rosetta dell’ESA che però, seguito ritardi, fu costretta a modificare soggetto optando per la Churyumov-Gerasimenko.

La cometa 46P/Wirtanen varcherà i cieli dell’emisfero settentrionale a partire dal mese di novembre. Inizialmente sarà bassa sull’orizzonte sud ma, data la sua vicinanza, si dirigerà velocemente verso nord aumentando giorno dopo giorno la sua luminosità. Il massimo verrà raggiunto il giorno 16 Dicembre 2018 dove la magnitudine si aggirerà intorno alla +3 (visibile ad occhio nudo). ASTROtrezzi cercherà di seguire la cometa a partire dalla fine di Novembre. Seguite questa pagina per avere informazioni sulla cometa e avere gli ultimi aggiornamenti (indicati come UPDATE).

UPDATE (30/11/2018): riportiamo il grafico della magnitudine misurata in funzione del tempo per la cometa 46P/Wirtanen, come riportato nel COBS database.

Luminosità della cometa 46P/Wirtanen. Dati COBS database.

UPDATE (04/12/2018): riportiamo la curva di luminosità della cometa Wirtanen aggiornata con gli ultimi dati del database COBS. La cometa è stata ripresa con una reflex digitale il 04/12/2018 da Varenna – LC (vedi galleria immagini). Seppur bassa sull’orizzonte sud dove l’inquinamento luminoso è più consistente, la Wirtanen si mostrava discretamente luminosa, tanto da permetterne l’inseguimento automatico (15 secondi di posa su camera di guida Magzero MZ-5m + rifrattore 10 cm f/5). Purtroppo la cometa non presenta una coda, se non una minima appena percepibile nell’immagine integrata. Il moto della cometa permette pose da circa un minuto non inseguite con 448 mm di focale.

Luminosità della cometa 46P/Wirtanen. Dati COBS database.

UPDATE (08/12/2018): purtroppo il meteo inclemente non ha permesso ulteriore riprese dalla cometa 46P/Wirtanen. Di seguito riportiamo la curva di luminosità della cometa aggiornata agli ultimi dati del database COBS. Utilizzando i dati di luminosità dal 10/09/2018 ad oggi ci siamo permessi di effettuare un fit lineare al fine di ricavare la nostra previsione per la variazione di luminosità della cometa. Secondo i nostri calcoli (R2 = 0.93), la massima luminosità che raggiungerà la cometa sarà pari a magnitudine +4.0. Secondo le nostre stime quindi, la 46P/Wirtanen non sarà la cometa più luminosa dell’emisfero settentrionale degli ultimi 20 anni, superata dalle comete Holmes, dalla PANSTARRS e Lovejoy.

Luminosità della cometa 46P/Wirtanen. Dati COBS database. La linea tratteggiata rappresenta il fit lineare applicato ai dati sperimentali.

UPDATE (24/12/2018): la cometa di Natale 2018 ha ormai oltrepassato il suo punto di minima distanza dal Sole e dal nostro pianeta e pertanto prosegue inesorabile il suo cammino che la porterà via via ad allontanarsi da noi diminuendo la sua luminosità. Come previsto, la cometa non ha purtroppo mostrato una coda degna di nota mentre la sua luminosità ha raggiunto un valore prossimo a magnitudine +4.0 come stimato anche da noi nell’aggiornamento precedente. Grazie alle condizioni meteo favorevoli siamo riusciti a riprendere la cometa i giorni 12, 15 e 18 dicembre. E’ possibile visionare le immagini nella galleria a fondo articolo o dalla pagina principale del sito (oltre che nella sezione Astrofotografia-Comete). Di seguito riportiamo le effemeridi aggiornate della cometa per il periodo 24/12 – 17/01 oltre al grafico di luminosità con i dati del COBS database aggiornati.

Luminosità della cometa 46P/Wirtanen. Dati COBS database. La linea tratteggiata rappresenta il fit lineare applicato ai dati sperimentali.


Secondo gli ultimi dati la cometa è già visibile (oggi, 30/11/2018) al binocolo. A partire dal 03 Dicembre 2018 la cometa diventerà visibile ad occhio nudo ma solo da cieli estremamente bui (quindi non in Italia). I giorni prossimi al 16 Dicembre 2018 infine, la Wirtanen sarà facilmente visibile da cieli sub-urbani. Per individuarla guardate verso sud intorno alla mezzanotte (più o meno nella direzione dove si trova il Sole intorno a mezzogiorno) e fatevi aiutare dalla cartina riportata in questo articolo. La costellazione da cui partire è Orione, facilmente distinguibile dalle tre stelle più luminose che la compongono. A partire da quella cercate di individuare le altre costellazioni. Ovviamente il lavoro di ricerca sarà tanto più arduo quanto il cielo sarà inquinato. Per chi osserva da cieli urbani o sub-urbani consiglio l’utilizzo di un binocolo. Per chi fosse in difficoltà ricordo che ci sono astrofili pronti a darvi una mano sparsi su tutto il territorio italiano. Per quel che riguarda la Brianza e il Lario suggerisco il Gruppo Amici del Cielo e l’Osservatorio Astronomico di Sormano.

Posizione della cometa 46P/Wirtanen - mappa realizzata con Skychart

Le effemeridi della cometa (in-the-sky.org) calcolate per Milano ma generalizzabili praticamente a tutta Italia, sono riportate qui sotto.

Effemeridi della cometa46P/Wirtanen per la località di Milano

Effemeridi della cometa46P/Wirtanen per la località di Milano

Di seguito una breve guida su come fotografare la cometa 46P/Wirtanen e come seguirla con il software Stellarium, il più completo (e gratuito) planetario virtuale multi-piattaforma oggi disponibile. Per individuare la cometa utilizzando il software Stellarium per mobile è necessario scaricare l’ultima versione del software e mantenerlo costantemente aggiornato. Non perdetevi quindi gli aggiornamenti!

SEGUIRE LA COMETA CON STELLARIUM [contributo di Matteo Manzoni]

Con l’avvicinarsi in questi giorni della cometa 46P/Wirtanen, vediamo come aggiungerla in Stellarium per poterla agevolmente localizzare nel cielo invernale. Per prima cosa dobbiamo avviare Stellarium andando poi in “Finestra di configurazione” o premendo il tasto F2. Selezioniamo quindi il tab “plugins”. Nell’elenco che appare selezionare il plugin “editor sistema solare”. Abilitiamo selezionando la voce “carica all’avvio” e poi premendo il tasto configura.

Nella schermata che viene mostrata dovete selezionare il tab “sistema solare” e poi cliccare sul pulsante “Importa elementi orbitali nel formato MPC…”

Verrà ora mostrata la schermata “importa dati” e selezionando il tab “Ricerca online” si dovrà inserire nella barra di ricerca la denominazione “46P/Wirtanen″ e poi premere la lente d’ingrandimento per avviare la ricerca.

Selezionare come da immagine il nuovo oggetto mostrato e poi premere su “aggiungi oggetti”.

Ora basterà chiudere tutte le schermate aperte e premendo il tasto F3 si aprirà la schermata di ricerca in cui basterà inserire il nome della cometa “46P/Wirtanen″ e ci verrà mostrata la posizione esatta della cometa.

FOTOGRAFARE LA COMETA WIRTANEN

Le comete sono tra gli oggetti più affascinanti del cielo. Eppure, possono diventare tra i soggetti più ostici da riprendere sia per principianti che per astrofotografi esperti. Oltre a partecipare al moto apparente di rotazione con le altre stelle fisse, le comete posseggono infatti anche un loro moto proprio rispetto a queste ultime. Ecco quindi che una montatura astronomica motorizzata non è più, da sola, in grado di inseguire le comete. Quindi che fare?

  • RIPRESA DELLA COMETA 46P/WIRTANEN CON CAVALLETTO FOTOGRAFICO: utilizziamo l’applicazione VIRGO sviluppata da ASTROtrezzi sia per smartphone che per PC al fine di calcolare il massimo tempo di esposizione possibile per la latitudine a cui si trova la cometa. Potete usare la mappa presente in questo articolo al fine di scegliere la giusta costellazione a seconda del periodo in cui deciderete di osservare la cometa. Consigliamo di aprire il diaframma dell’obiettivo il più possibile mentre per gli ISO è consigliabile utilizzare valori medi compresi tra 800 – 1600. Purtroppo, la Wirtanen non svilupperà una vistosa cometa e pertanto si consiglia di riprenderla, possibilmente ambientata, con focali comunque superiori ai 70 mm.
  • RIPRESA DELLA COMETA 46P/WIRTANEN CON UNA MONTATURA ASTRONOMICA: purtroppo il problema del moto proprio delle comete rispetto alle stelle fisse, illustrato nel paragrafo precedente, non si può risolvere banalmente con una montatura astronomica seppur motorizzata. Infatti, questa è in grado di seguire il movimento delle stelle e non delle comete. Come fare allora? Esiste solo una possibilità: inseguire la cometa invece delle stelle! Questo può essere fatto solo attraverso una guida (manuale o autoguida), inseguendo il nucleo della cometa invece della tipica stella di guida. Ovviamente, quando andremo a sommare le nostre immagini, dovremmo allinearle rispetto al nucleo della Wirtanen generando inevitabilmente il mosso nelle stelle. Il risultato finale sarà quindi una cometa perfettamente a fuoco e ben esposta con uno star-trail di fondo. Alcuni software come DeepSkyStacker permettono di ottenere sia stelle che cometa puntiformi attraverso sistemi più o meno complessi di combinazione delle immagini. Prossimamente sarà presente su ASTROtrezzi.it e linkato in questa pagina un articolo su come elaborare le comete utilizzando PixInsight.

Appena disponibili, di seguito verranno riportate le immagini e le misure astronomiche della cometa 46P/Wirtanen effettuate da ASTROtrezzi.

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Eclissi totale di Luna 27 Luglio 2018

La Luna rappresenta uno dei corpi celesti più affascinanti e da sempre è fonte di ispirazione per scienziati, artisti e poeti. In particolare, durante il suo moto di rivoluzione intorno al nostro pianeta, la Luna viene illuminata dal Sole secondo diverse angolazioni dando luogo alle così dette fasi lunari. In particolare, quando il Sole illumina completamente la faccia della Luna rivolta verso Terra, questa viene detta Piena.

Per avvenire ciò, l’orbita lunare deve avere un’inclinazione sufficiente per evitare che la Terra si interponga tra Luna e Sole. Questo è garantito da un’inclinazione dell’orbita lunare di circa 5° rispetto all’eclittica.

Malgrado ciò, durante il moto di rivoluzione lunare, il nostro satellite naturale si troverà a passare per ben due volte attraverso l’intersezione tra il piano orbitale lunare e l’eclittica. Questo punto è detto nodo (Figura 1).

Figura 1: sistema Sole - Terra - Luna e posizione dei nodi.

Se la Luna passa dal nodo il giorno di Luna Piena, allora il sistema Sole – Terra – Luna si troverà allineato ed avverrà un’eclissi totale di Luna. Questo si verificherà il 27 luglio 2018. La Luna, inizialmente illuminata direttamente dalla luce solare (piena) verrà via via occultata dall’ombra del nostro pianeta fino a sparire completamente (eclissi, momento della totalità). In verità il disco lunare rimarrà comunque illuminato dalla debole luce che, emessa dal Sole, attraversa la nostra atmosfera assumendo una colorazione rossa.

Per questo motivo la Luna, durante la totalità si tingerà di rosso.

L’eclissi totale del 27 luglio 2018 si osserverà dall’Italia e sarà caratterizzata da sette fasi che avranno luogo negli orari indicati:

  • P1 (19:15) – inizio della Penombra: la Luna Piena viene parzialmente oscurata dalla Terra. Diminuisce la sua luminosità superficiale.
  • U1 (20:24) – inizio dell’Ombra: una regione sempre più grande della superficie lunare viene oscurata dal nostro pianeta.
  • U2 (21:30) – inizio della totalità: la Luna è completamente oscurata dalla Terra ed assume una colorazione rossastra. La fase di totalità ha inizio
  • Totalità (22:22) – il massimo d’eclissi. In questa fase la Luna raggiunge la sua minima luminosità essendo completamente immersa nel cono d’ombra terrestre
  • U3 (23:13) – fine della totalità: la Luna è ancora oscurata dalla Terra malgrado sia prossima ad uscire dalla regione d’ombra
  • U4 (00:19) – fine dell’ombra: la Luna, uscita dalla regione d’ombra viene via via sempre illuminata dalla luce solare.
  • P4 (01:29) – fine della penombra: la Luna illuminata dal Sole aumenta sempre più la sua luminosità superficiale fino a tornare Piena.

Purtroppo, seppur la fase di totalità sia completamente visibile dall’Italia, l’eclissi nel suo complesso non è osservabile dal nostro paese. Infatti, durante l’intera fase P1 e parte della U1 la Luna si troverà sotto l’orizzonte. Se però gli abitanti del nord Italia dovranno accontentarsi di vedere la Luna sorgere durante la fase U1, gli abitanti del centro e del sud potranno vedere anche parte della fase P1. La divisione tra queste due regioni è illustrata in Figura 2.

Figura 2: mappa di visibilità dell'eclissi totale di Luna del 27/07/2018

COME OSSERVARE E FOTOGRAFARE L’ECLISSI TOTALE DI LUNA

Osservare l’eclissi totale di Luna del 27 luglio 2018 è molto semplice.  Basta trovare un luogo in cui è ben visibile l’orizzonte est, ovvero dove sorge il Sole. La Luna sorgerà a sud-est già eclissata e quindi potrebbe essere interessante riprendere l’evento con una fotocamera equipaggiata di un teleobiettivo (< 300 mm) e cavalletto fotografico. Utilizzate un telecomando per scatto remoto e il sollevamento dello specchio nel caso di reflex al fine di ridurre le eventuali vibrazioni. Se invece volete riprendere il disco lunare potete utilizzare un qualunque telescopio la cui lunghezza focale, espressa in mm, deve rispettare la seguente formula:

 

dove l è la dimensione dei pixel della fotocamera utilizzata espressa in micron e H è l’altezza dell’immagine prodotta dalla fotocamera in pixel. Per chi non vuole cimentarsi nei conti, ricordo che con una normale reflex non professionale, la focale ideale per la ripresa di questa eclissi totale di Luna è 1200 mm di focale. Ricordatevi inoltre che durante un’eclissi di Luna l’illuminazione del disco lunare cambia velocemente ed è quindi necessario adattare i tempi di esposizione. Durante la totalità, in particolare, i tempi sono particolarmente lunghi, dell’ordine di qualche secondo ed è quindi consigliabile stazione con precisione i propri telescopi e/o astroinseguitori. Non utilizzate filtri astronomici, non sono necessari.

 CURIOSITA’

L’orbita lunare è piuttosto complessa e la distanza Terra – Luna cambia repentinamente oscillando tra valori massimi e minimi (orbita ellittica). Pertanto, vi sono periodi in cui la Luna è particolarmente vicina (perigeo) e altri in cui è particolarmente lontana (apogeo). L’effetto principale è una variazione delle dimensioni apparenti del disco lunare che variano generalmente tra i 33.2 e i 29.5 minuti d’arco come visibile in figura 3. Nel caso in cui la Luna Piena si trovi in prossimità di un perigeo o l’apogeo con valori estremi, si parla rispettivamente di Superluna e Miniluna. La Luna Piena del 27 luglio 2018 sarà una Miniluna con un diametro di 29.3 minuti d’arco. Keplero dimostrò che in un’orbita ellittica i corpi celesti si muovono più lentamente in prossimità dell’apogeo e più velocemente al perigeo. Come conseguenza la Luna del 27 luglio si muoverà molto lentamente rendendo l’eclissi la più lunga del secolo.

Figura 3: dimensione apparente della Luna Piena durante il perigeo e l'apogeo

ASTROTREZZI

ASTROtrezzi ha organizzato un’escursione in Italia centro-meridionale al fine di riprendere l’eclissi totale di Luna del 27 luglio 2018. L’evento potrà essere seguito in diretta sulla pagina Facebook di ASTROtrezzi (evento dedicato). Di seguito le immagini preliminari dell’eclissi totale di Luna riprese da Montefiore dell’Aso (AP):

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Filtri Anti-Inquinamento Luminoso

Perché gli astrofotografi sono costretti a macinare centinaia di chilometri per fotografare il cielo notturno? La risposta è semplice ed ha un nome ed un cognome: Inquinamento Luminoso. Ebbene sì, non solo abbiamo inquinato l’acqua che beviamo e l’aria che respiriamo ma ci stiamo privando anche della possibilità di osservare l’ambiente in cui viviamo: l’Universo. Con la parola inquinamento luminoso intendiamo la diffusione della luce artificiale da parte dell’atmosfera terrestre la quale produce un alone luminoso che, a seconda dell’intensità, è in grado di ridurre il numero di oggetti celesti visibili ad occhio nudo (fotografabili).

La luce artificiale è dovuta all’illuminazione pubblica di strade e parchi, dei cartelli pubblicitari, delle palazzine, delle automobili e molto altro ancora. Nella maggior parte dei casi però solo una piccola parte della luce illumina il soggetto mentre gran parte di essa è diretta verso il cielo.

Di conseguenza, l’inquinamento luminoso è maggiore in prossimità di grandi centri cittadini, dove spesso vivono gli astrofotografi. Quindi cosa fare? Una soluzione è quella descritta all’inizio di questo articolo ovvero allontanarsi il più possibile dai centri cittadini scegliendo luoghi secchi (montagne) dove la diffusione è ridotta al minimo. Una seconda soluzione è quella di cercare di schermarsi dall’inquinamento luminoso utilizzando opportuni filtri. Prima di descrivere in dettaglio il funzionamento di questi filtri è però necessario comprendere la natura della sorgente di luce che vogliamo andare a schermare ossia l’illuminazione artificiale.

Questa è prodotta dalle lampade/lampadine le quali possono utilizzare diversi tipi di tecnologie al fine di produrre luce. Andiamo quindi a studiarne in dettaglio le caratteristiche.

Lampade ad incandescenza

Il principio di funzionamento di queste lampade è semplice. La corrente elettrica passando attraverso un filo metallico (tungsteno) lo scalda aumentandone la temperatura. Superata una certa soglia questo produce luce il cui spettro è detto di corpo nero. Seppur “controintuitivo” emettere come un corpo nero significa emettere luce a tutte le frequenze (continuo) con uno spettro caratteristico come mostrato in figura 1.

Figura 1: spettro di emissione di una lampada ad incandescenza (rosso) confrontato con quello delle nebulose e galassie.

Le lampade ad incandescenza sono state proibite nella comunità europea a partire dal primo settembre 2012. Malgrado ciò molti sono ancora gli impianti di illuminazione privata che utilizzano questo tipo di lampade. In particolare le vediamo nelle case, nelle opere d’arte (se così possiamo definirle) e nelle insegne pubblicitarie. In questa categoria rientrano le lampade alogene ovvero lampade ad incandescenza più efficienti grazie all’utilizzo di gas alogeno capace di inibire la fusione del filamento e quindi aumentarne la temperatura e di conseguenza la luminosità. Questi tipi di lampade ad incandescenza sono utilizzate ad esempio per i fari delle automobili. A differenza delle normali lampade ad incandescenza le lampade alogene non sono soggette alla norma che ne vieta la vendita.

Analizzando in dettaglio lo spettro di emissione riportato in figura 1 possiamo osservare come le lampade ad incandescenza creano un disturbo a tutte le frequenze di interesse astrofisico. Inoltre il massimo contributo si ha intorno ai 640-650 nm, ovvero in prossimità della riga H-alfa (656 nm) dell’idrogeno responsabile della colorazione rossa delle nebulose. In questo senso, per astrofotografi e visualisti le lampade ad incandescenza sono il male assoluto. Fortunatamente, come ribadito in precedenza, questo tipo di lampade sono oggi poco diffuse per l’illuminazione pubblica e quindi danno un contributo minimo alla dose di inquinamento luminoso globale.

Lampade a scarica

Il principio fisico di funzionamento delle lampade a scarica è diverso da quello delle lampade ad incandescenza. Qui un gas inerte o del vapore viene ionizzato ad opera di una differenza di potenziale emettendo di conseguenza luce. Il gas presente può essere mantenuto ad alta o bassa pressione a seconda del tipo di lampada considerata. Esistono una varietà di lampade di questo tipo, dal tubo al neon alle lampade al sodio e mercurio a bassa o alta pressione. I primi vengono generalmente utilizzati per l’illuminazione di interni ed insegne pubblicitarie mentre le lampade al sodio (basa ed alta pressione) e mercurio (alta pressione) nell’illuminazione di strade e parchi pubblici.

Le lampade a scarica emettono luce solamente a determinati valori di lunghezza d’onda (discreto) come riportato in figura 2.

Figura 2: spettro di emissione di una lampada ai vapori di mercurio (blu), sodio ad alta pressione (arancione scuro), sodio a bassa pressione (arancione chiaro) confrontato con quello delle nebulose e galassie.

differenza delle lampade ad incandescenza saranno facilmente schermabili utilizzando appositi filtri. Nel caso delle lampade al sodio si può osservare come la massima intensità luminosa si trovi intorno ai 589 nm (doppietto di emissione del sodio) mentre per quelle al mercurio abbiamo più linee caratterizzate dall’avere frequenze inferiori ai 600 nm. Possiamo quindi dire che il contributo alla linea H-alfa in questo caso è praticamente trascurabile.

Lampade a LED

La tecnologia LED, sviluppata per la prima volta nel 1962, è il modo più moderno per produrre luce visibile. In questo caso la luce è prodotta per elettroluminescenza da alcuni materiali semiconduttori quando a questi viene applicata una differenza di potenziale. Grazie alla maggior durata e al minor consumo di energia, la tecnologia LED sta soppiantando di fatto tutte le altre per l’illuminazione sia pubblica che privata.

Le lampade LED possono emettere luce sia bianca che colorata. In questo secondo caso, la luce risulta essere quasi monocromatica con uno spettro piccato ad una frequenza caratteristica che dipende dal tipo di semiconduttore utilizzato. La maggior parte delle lampade LED brillano però di luce bianca. Il processo di produzione può avvenire sfruttando due tecniche differenti:

  • LED RGB: in questo caso la luce bianca è realizzata come sovrapposizione di led rossi, verdi e blu. Lo spettro è pertanto costituito dalle tre “linee” caratteristiche (vedi figura 3). I LED RGB hanno un utilizzo diffuso in architettura per l’illuminazione di locali e ristoranti.
  • LED blu + fosforo: questo è il caso più abituale in cui la luce bianca è ottenuta come luminescenza da parte della luce blu-UV emessa dal semiconduttore su uno strato di fosforo. In questo caso lo spettro presenterà un picco più o meno grande associato all’emissione originale del semiconduttore e un continuo di frequenze nello spettro del visibile (vedi figura 3). Sotto questo aspetto le lampade LED bianche simulano lo spettro elettromagnetico solare o delle vecchie lampade ad incandescenza. Questi tipi di lampade LED sono quelli più diffusi utilizzati per l’illuminazione delle strade.

Figura 3: spettro di emissione di una lampada LED bianca ottenuta come somma di tre LED (rosso, verde, blu) o come LED + fosforo (linea continua nera) confrontato con quello delle nebulose e galassie.

Analizzando in dettaglio lo spettro di emissione riportato in figura 3 possiamo osservare come i LED RGB siano il male assoluto per gli appassionati di nebulosi in quanto l’emissione è praticamente centrata sulla linea H-alfa. Fortunatamente il contributo all’inquinamento luminoso globale di queste lampade è minimo data la loro scarsa diffusione. I LED bianchi (blu + fosforo) sono invece del tutto simili come risposta spettrale a quelli delle lampade ad incandescenza portando quindi con sé tutti i problemi evidenziati in precedenza. Inoltre anche se la luce LED (blu + fosforo) è definita bianca, abbiamo comunque un residuo di luce blu piuttosto intenso.

I Filtri anti-inquinamento luminoso

Abbiamo visto come la tipologia di sorgente di luce artificiale è tanto variegata quanto dannosa in termini astrofotografici. Come possiamo quindi difenderci dall’inquinamento luminoso senza dover macinare chilometri in auto tra buie strade di montagna? L’unica soluzione è l’utilizzo di filtri anti-inquinamento luminoso. Questi sono filtri in vetro capaci di schermare parte della radiazione luminosa incidente.

Un filtro anti-inquinamento luminoso ideale è quello che riesce a bloccare completamente la luce artificiale facendo passare solo quella proveniente dal Cosmo. Ovviamente tale filtro non esiste. Bisogna quindi trovare un compromesso non sempre possibile. Infatti se per le lampade a scarica dove lo spettro di emissione è discreto è possibile fare un certosino lavoro di pulizia, per le lampade ad incandescenza e LED la situazione è davvero complicata ed una sottrazione efficiente è praticamente impossibile.

Per capire meglio la problematica iniziamo con il considerare le tre grandi categorie di filtri anti-inquinamento luminoso oggi diffuse maggiormente sul mercato: filtri UHC, LPR (Light Pollution Reduction) e ad ampio spettro.

Filtri UHC

UHC è una sigla che sta ad indicare Ultra High Contrast ovvero una famiglia di filtri in grado di fornire un maggior contrasto delle immagini astronomiche. Anche se il nome non ricorda direttamente l’inquinamento luminoso, ricordiamo che questo è il responsabile della diminuzione del contrasto tra i deboli oggetti celesti ed il cielo buio. I filtri UHC sono capaci di bloccare tutta la radiazione luminosa incidente con frequenza compresa tra circa le 530 e 630 nm ovvero rimuove dall’immagine gran parte della luce emessa dalle lampade al mercurio e al sodio che, fino a pochi anni fa, erano la sorgente principale di inquinamento luminoso (vedi figura 4).

Figura 4: Le curve di trasmissione dei filtri UHC sovrapposti allo spettro di emissione di lampade al Sodio, Mercurio ed oggetti astrofisici (nebulose e galassie).

 

Con UHC si va spesso ad indicare non solo un determinato filtro anti-inquinamento luminoso ma anche l’intera famiglia di filtri caratterizzati da risposte spettrali simili. In particolare esistono tre diversi filtri UHC:

  • UHC: è il filtro che da il nome alla famiglia. È il più efficiente nel taglio della luce artificiale e fa passare gran parte della radiazione rossa (linea H-alfa).
  • UHC-E: Questo filtro è analogo all’UHC ma è meno efficiente nel taglio della radiazione ad alta frequenza. In particolare questo filtro fa passare parte delle radiazioni provenienti dalle lampade ai vapori di mercurio.
  • UHC-S: Questo filtro è il meno efficiente della famiglia in quanto poco filtrante sia alle alte frequenze che nella regione spettrale di emissione delle lampade al sodio e nelle basse frequenze (luce rossa). In compenso blocca la radiazione del vicino-infrarosso senza però apportare particolari miglioramenti in termini di qualità delle immagini astronomiche.

Tutti questi filtri vengono venduti dalla ditta Astronomik anche se è possibile trovare filtri UHC di altre marche.

Filtri LPR

I filtri UHC l’hanno fatta da padrone negli anni 2000 in quanto gli unici in grado di ridurre in modo sostanziale l’inquinamento luminoso in astrofotografia. In particolare erano adatti sia per riprese da cieli cittadini (UHC) che da cieli mediamente inquinati (UHC-E). Infine, anche da cieli bui l’utilizzo di un filtro UHC-S può migliorare la qualità globale dell’immagine in termini soprattutto di contrasto. Il prezzo da pagare però non è poco. Tagliando lo spettro in modo così netto nelle frequenze 500-600 nm, si modifica la composizione spettrale e quindi il colore delle sorgenti luminose e pertanto le nostre immagini presentano con i filtri UHC forti dominanti verde-acqua e magenta. Questa dominante poteva essere eliminata con tecniche di “cosmetica” come il bilanciamento del bianco e l’utilizzo di filtri di correzioni quali HLVG (Adobe Photoshop). Malgrado gli sforzi però, le immagini riprese con filtri UHC posseggono sempre una dominante residua. Proprio per ovviare ciò, nell’ultimo ventennio sono stati prodotti una serie di filtri dal nome LPR (Light Pollution Reduction) ad opera dell’azienda IDAS. La risposta spettrale alle lampade al sodio e al mercurio di questi filtri è illustrata in figura 5.

Figura 5: Le curve di trasmissione dei filtri LPR-IDAS sovrapposti allo spettro di emissione di lampade al Sodio, Mercurio ed oggetti astrofisici (nebulose e galassie).

 Anche i filtri LPR vivono in famiglia e ne esistono di tre modelli di cui due praticamente identici:

  • IDAS D1 / IDAS P2: è sotto tutti gli effetti un filtro UHC con l’unica differenza che l’IDAS lascia passare parte della radiazione nella regione tra 500 e 600 nm ad esclusione del picco del sodio. In questo modo la “perturbazione” dei colori ad opera del filtro risulta ridotta così come le dominanti residue che, dopo un opportuno bilanciamento del bianco, sono praticamente nulle. Non esistono sostanziali differenze tra i filtri D1 e P2 di cui il primo non è nient’altro che l’evoluzione tecnologica del secondo.
  • IDAS V4: questo è un filtro molto particolare. Praticamente è un filtro UHC molto stretto centrato sulle linee di emissione delle nebulose (idrogeno, ossigeno). L’efficienza nel taglio dell’inquinamento luminoso è pertanto molto elevata.

Filtri CLS e SkyGlow

Terminiamo la nostra carrellata sui filtri anti-inquinamento luminoso analizzando gli ultimi due diffusi sul mercato: CLS (City Light Suppression) e SkyGlow (“alone luminoso” in italiano). La risposta spettrale dei due filtri è riportata in figura 6.

Figura 6: Le curve di trasmissione dei filtri CLS e SkyGlow sovrapposti allo spettro di emissione di lampade al Sodio, Mercurio ed oggetti astrofisici (nebulose e galassie).

Come si vede dall’immagine i filtri CLS e SkyGlow sono nuovamente dei filtri UHC ma capaci di far passare molta più radiazione incidente a scapito ovviamente della loro capacità di ridurre l’inquinamento-luminoso. Proprio per questo l’utilizzo di questi filtri è spesso limitato all’osservazione visuale del cielo o a riprese da cieli poco inquinati.

I filtri anti-inquinamento luminoso all’epoca dei LED

Se dopo decenni di sofferenza a causa dell’inquinamento indotto dalle lampade a mercurio e sodio si era trovata una soluzione grazie ai filtri UHC, LPS, CLS e SkyGlow, il nuovo millennio ha dato i natali ad una nuova tecnologia di illuminazione: le lampade LED. Molto abbiamo detto di queste lampade nei paragrafi precedente ma molto ancora rimane da argomentare sugli effetti di questa lampade in termini di inquinamento luminoso. La prima caratteristica già analizzata è che i LED hanno uno spettro di emissione continuo il che vuol dire che la loro luce disturba tutte le frequenze della radiazione luminosa. Se quindi con un filtro è possibile rimuovere la parte dello spettro elettromagnetico dove una certa lampada emette in modo discreto, nel caso dei LED l’efficacia di un filtro è notevolmente ridotta.

Inoltre abbiamo sempre parlato di spettro delle lampade, dimenticando che parte del contributo dell’inquinamento luminoso totale è dovuto alla diffusione dei raggi luminosi artificiali da parte dell’atmosfera terrestre. La diffusione è tanto maggiore quanto minore è la lunghezza d’onda della radiazione incidente. Una luce calda come quella delle lampade al sodio diffonde molto meno di una luce bianca (LED) la cui componente blu viene diffusa in modo molto efficiente. Inoltre ricordiamo che i LED hanno un picco residuo molto luminoso nel blu. A parità di potenza quindi le lampade LED diffondono maggiormente la loro luce aumentando l’inquinamento luminoso. Dimentichiamoci quindi i vecchi aloni arancioni che circondavano le città per passare a dei cieli azzurri, simili a quelli diurni.

Purtroppo il problema dell’utilizzo di lampade LED non ha un’immediata soluzione. In figura 7-8-9 vediamo la risposta spettrale dei filtri anti-inquinamento luminoso alle lampade LED.

Figura 7: Le curve di trasmissione dei filtri UHC sovrapposti allo spettro di emissione di lampade LED ed oggetti astrofisici (nebulose e galassie).

Figura 8: Le curve di trasmissione dei filtri LPR-IDAS sovrapposti allo spettro di emissione di lampade LED ed oggetti astrofisici (nebulose e galassie).

Figura 9: Le curve di trasmissione dei filtri CLS e SkyGlow sovrapposti allo spettro di emissione di lampade LED ed oggetti astrofisici (nebulose e galassie).

Quale filtro utilizzare

Concludiamo questo articolo cercando di riassumere con una tabella (tabella 1) gli utilizzi dei vari filtri analizzati e la loro efficacia nei confronti delle lampade a scarica e LED. Abbiamo trascurato le lampade ad incandescenza dato il loro basso contributo all’inquinamento luminoso totale.

Tabella 1: caratteristiche principale dei filtri anti-inquinamento luminoso. Per ogni filtro è indicato l’utilizzo ottimale ovvero un impiego limitato alla ripresa di nebulose ad emissione o planetarie o un impiego più generico. Inoltre si riporta la capacità di filtraggio dell’inquinamento luminoso generato da lampade a scarica e LED.

Concludendo, tra i filtri maggiormente presenti sul mercato nell’ottica di un aumento dell’utilizzo di tecnologia LED per l’illuminazione pubblica e privata, i più efficaci in termini di riduzione dell’inquinamento luminoso rimangono gli UHC, UHC-E e LPR-IDAS V4. Efficacia comunque ridotta dall’impossibilità di schermare lo spettro continuo e l’elevata diffusione della luce prodotta dalle lampade LED.




Il Pianeta Giove

Avere delle informazioni dettagliate ed aggiornate sui pianeti del Sistema Solare è, nell’epoca di internet, piuttosto semplice. Basta andare su un motore di ricerca e digitare il nome di un pianeta per trovare decine di migliaia di articoli dettagliati in lingua italiana e/o inglese. ASTROtrezzi vuole però offrirvi qualcosa di diverso, ovvero accompagnarvi nella scoperta del Sistema Solare attraverso l’osservazione e la ripresa astrofotografica del cielo. Pertanto il nostro punto di partenza non saranno numeri ma immagini, osservate attraverso gli oculari o i monitor LCD delle nostre fotocamere e PC. In particolare, partiremo in questo articolo con il pianeta più grande del Sistema Solare: Giove.

A differenza delle stelle che mantengono pressoché invariata la loro posizione relativa in cielo durante l’anno, i pianeti si muovono tra le stelle. Il termine pianeta deriva infatti dal greco antico, dove stava a significare “stella vagabonda”, riflettendo la peculiarità di questi oggetti apparentemente identici a stelle, di vagare tra le “altre” stelle fisse. Quindi, seppur noti fin dall’antichità, i pianeti erano considerate originariamente stelle “particolari” e non mondi simili alla Terra così come li conosciamo oggi. Per motivi prospettici, tutti i pianeti si muovono lungo una regione ben precisa del cielo, attraversando quelle che prendono il nome di costellazioni dello zodiaco. Ecco quindi che lo zodiaco e i pianeti, in quanto “oggetti” peculiari, ricoprirono subito significati in ambiti religiosi e legati alla superstizione (profezie ed oroscopi).

Figura 1: congiunzione Giove - Venere del 30 giugno 2015. Visto da Terra, Giove è (mediamente) il pianeta più luminoso dopo Venere.

Ancora oggi possiamo osservare ad occhio nudo sei dei sette pianeti del Sistema Solare (Terra esclusa) anche se, a dire il vero, Urano è ormai invisibile da gran parte dei cieli della nostra penisola a causa dell’eccessivo inquinamento luminoso. Di tutti i pianeti, Giove è il più luminoso dopo Venere. La differenza di luminosità tra i vari pianeti è ben visibile durante quei fenomeni astronomici noti come congiunzioni planetarie ovvero quando due o più pianeti si trovano prospetticamente vicini in cielo (Figura 1, congiunzione Giove-Venere del 30 giugno 2015).

Una volta individuato ad occhio nudo il pianeta Giove con l’aiuto di una mappa celeste, di uno smartphone o di un esperto come nelle notti dedicate all’osservazione del cielo a Lo Smeraldino, possiamo iniziare a puntarci contro un binocolo o obiettivo con focale intorno ai 300 mm. Quello che vedrete sarà un piccolo dischetto luminoso circondato da un certo numero di stelline allineate (Figura 2). Il primo è il disco del pianeta che a quegli ingrandimenti non mostrerà particolari evidenti. Le stelline molto probabilmente sono le quattro principali lune del pianeta note come satelliti galileiani: Io, Europa, Ganimede e Callisto. A volte potrete vederne più di quattro ed in tal caso vorrà dire che nel campo ci saranno anche delle stelle di fondo. Nel caso in cui invece le stelline fossero meno di quattro allora significa che alcune lune stanno transitando o di fronte o dietro il disco di Giove. Una volta individuati i satelliti galileiani è possibile determinarne il periodo di rivoluzione intorno a Giove come dimostrato nell’articolo “Studio dei satelliti di Giove con un telescopio amatoriale“.

Figura 2: Giove come visibile attraverso un binocolo o un teleobiettivo.

 Vediamo quindi come già con una piccola strumentazione sia possibile effettuare delle interessanti osservazioni, riprese e persino misure astronomiche amatoriali. Oltre ai quattro satelliti principali, esistono anche satelliti minori come Amalthea, la cui osservazione e ripresa risulta però complessa e sarà a breve oggetto di studio presso Lo Smeraldino.

Un’ultima informazione che possiamo ottenere dall’osservazione ad occhio nudo di Giove è il suo periodo di rivoluzione intorno al Sole. Questo può essere determinato misurando dopo quanto tempo il pianeta ci appare in uno stesso punto del cielo. Per il gigante gassoso questo tempo è pari a circa 12 anni. Utilizzando la legge di Keplero che lega la distanza del pianeta dal Sole al suo periodo di rivoluzione T2 : d3 = costante, otteniamo la proporzione:

TTerra2 : dTerra3 = TGiove2 : dGiove3

ovvero misurando la distanza dal Sole in Unità Astronomiche (1 UA è pari alla distanza Terra – Sole) ed il periodo di rivoluzione intorno al Sole in anni abbiamo:

12 : 13 = 122 : dGiove3

da cui dGiove = 5.24 UA. Basandosi unicamente sulle osservazioni ad occhio nudo, siamo così giunti alla conclusione che Giove si trova ad una distanza dal Sole circa 5 volte maggiore rispetto a quella della Terra. Sapendo che la distanza Terra – Sole è pari a 150 milioni di chilometri, scopriamo che Giove dista circa 800 milioni di chilometri dal Sole.

Proseguiamo ora il nostro viaggio aumentando gli ingrandimenti. Per fare ciò bisogna abbandonare gli strumenti più comuni (binocoli e teleobiettivi) per passare ai ben più potenti mezzi forniteci dall’ottica: i telescopi. Già con un piccolo telescopio è possibile osservare alcuni dettagli del disco planetario: le bande atmosferiche (Figura 3).

Figura 3: Le due bande equatoriali di Giove

Giove è infatti coperto da una spessa atmosfera che ci impedisce totalmente la visione della sua superficie rocciosa. Tale atmosfera è molto complessa e tuttora non ancora compresa a fondo dagli esperti del settore. Quello che sappiamo è che sulla superficie del pianeta si dispongono, parallelamente all’equatore, delle regioni chiare (zone) e scure (bande) alternate. In particolare due regioni scure sono più intense e prendono il nome di bande equatoriali. Oggi sappiamo che le bande, sono strati atmosferici meno densi e con una temperatura più elevata rispetto alle zone. In tali regione il gas fluisce verso il centro del pianeta mentre nelle zone il flusso è contrario. Le zone appaiono più chiare probabilmente a causa della presenza di cristalli di ghiaccio di ammoniaca. Le bande sono confinate da particolari venti detti correnti a getto che possono superare i 400 chilometri orari.

Le bande sono strutture pressoché stabili. Talvolta però è possibile osservare dei fenomeni sporadici, noti come disturbi che ne frammentano il decorso, facendo “scomparire” la banda equatoriale sud. Tali disturbi si manifestano ad intervalli irregolari di 3-15 anni e sono associati alla momentanea (settimane o mesi) sovrapposizione di più strati nuvolosi a quote diverse. ASTROtrezzi ha ripreso un evento di disturbo nel 2010 (Figura 4).

Figura 4: un disturbo ripreso il 02 luglio 2010.

Le scoperte che possiamo fare con un piccolo telescopio però non sono finite! Infatti possiamo stimare le dimensioni del pianeta. Per fare ciò basta misurare il diametro del pianeta così come ripreso con la nostra fotocamere o webcam planetaria. Noto il fattore di scala arcsec/pixel (vedi articolo Misurare il cielo) scopriremo che il diametro apparente massimo del pianeta è all’incirca pari a 50 secondi d’arco.

Sfruttando le leggi della trigonometria nell’approssimazione di angoli piccoli abbiamo che il raggio del pianeta è pari alla distanza Terra – Giove moltiplicata per il raggio apparente di Giove espresso in radianti. Per quel che abbiamo detto prima Giove dista dal Sole 5 UA circa e quindi dalla Terra al minimo 4 UA. Inoltre il raggio apparente del pianeta, pari a 25 secondi d’arco corrispondono a 0.00694 gradi ovvero 0.00012113 radianti (potete utilizzare il tasto di conversione deg-rad presente sulle calcolatrici scientifiche). Moltiplicando i due numeri otteniamo un raggio del pianeta pari a 0.000484 UA che in chilometri corrisponde a circa 70 mila. Ricordando che il nostro pianeta ha un raggio pari a circa 6000 km, questo vuol dire che possiamo disporre quasi 12 Terre lungo il diametro equatoriale di Giove.

Infine, talvolta è possibile osservare il proiettarsi dell’ombra dei satelliti galileiani sul disco di Giove. Questo fenomeno rappresenta sotto tutti gli effetti un’eclissi totale di Sole vista dallo spazio.

Figura 5: eclissi di "luna" su Giove vista da Terra.

Proseguiamo il nostro viaggio alla scoperta del Gigante Gassoso andando ad ingrandire ancora di più il disco del pianeta. Questo può essere fatto visualmente utilizzando oculari con focale sempre minore e fotograficamente aggiungendo alla nostra camera lenti moltiplicative note come lenti di Barlow. A questo punto il gioco diventa tanto interessante quanto duro. Infatti il massimo numero di ingrandimenti che potremo utilizzare sarà determinato principalmente dalla turbolenza atmosferica o seeing (per maggiori informazioni si legga l’articolo “La scala Antoniadi”). Pertanto, al fine di sfruttare al meglio il vostro strumento consigliamo di restare in pianura durante le notti con calma atmosferica, generalmente caratterizzata da foschia. Il massimo lo otterrete in un sottoinsieme di queste notti dove la calma atmosferica sarà presente anche sui monti, dove la trasparenza è maggiore e l’inquinamento luminoso ridotto. Anche se talvolta il seeing potrebbe non essere indecente, sconsigliamo comunque l’osservazione planetaria in notti ventose o da balconi e finestre. Una buona indicazione la otterrete osservando lo scintillio delle stelle ad occhio nudo. Se “luccicano” dedicatevi ad altro, mentre se sono “fisse” è il momento di spingere al massimo i vostri strumenti.

In una serata di seeing buono è possibile così scorgere i dettagli delle bande e delle zone ed in particolare i vortici. Queste sono strutture atmosferiche ruotanti in senso concorde o discorde a quello di rotazione del pianeta (si parla come sulla Terra di cicloni ed anticicloni). A differenza della Terra però su Giove gli anticicloni sono dominanti numericamente. I vortici non sono fenomeni perenni ma hanno una vita che varia da diversi giorni a centinaia di anni.  Gli anticicloni sono di colore chiaro e si dispongono longitudinalmente al disco planetario e tendono a fondersi quando vengono a contatto. I cicloni sono invece di dimensioni inferiore e colore bruno. Esistono comunque due particolari tipi di anticicloni peculiari: la grande macchia rossa e l’ovale BA. Questi due sono di colore rosso a seguito del materiale portato in alta atmosfera dalle profondità del pianeta. La prima ha dimensioni paragonabili a quelle di circa due/tre Terre (provate a misurarle con il vostro telescopio utilizzando la tecnica prima descritta per determinare il diametro di Giove), colore variabile dal bianco al rosa pastello al rosso mattone e venne osservata per la prima volta nel 1665 dall’astronomo Giovanni Cassini (Figura 6). L’ovale BA detta anche piccola macchia rossa si è formato nel 2000 ed ha iniziato a tingersi di rosso nel 2005. Le sue dimensioni stanno via via crescendo ed ormai hanno raggiunto la metà di quelle della grande macchia rossa.

La Grande Macchia Rossa ripresa allo Smeraldino il 18/03/2016.

Infine, ingrandendo sufficientemente il disco del pianeta è possibile determinare utilizzando ad esempio la posizione della macchia rossa, il periodo di rotazione di Giove. Questo risulterà essere pari all’incirca a 9 ore e 55 minuti. Con una velocità di rotazione così elevata, il pianeta mostrerà un evidente schiacciamento ai poli, misurabile amatorialmente come dimostrato nell’articolo Misura dell’ellitticità di Giove.

Questo è quanto è possibile osservare/misurare di Giove e su Giove in condizioni standard (medi/piccoli telescopi e seeing accettabile). In condizioni eccezionali è inoltre possibile riprendere alcuni particolari dei satelliti galileiani.

Infine in rari casi è possibile registrare l’impatto di comete e/o asteroidi sul pianeta. Infatti, data la sua notevole massa, Giove attrae gravitazionalmente su di se gli oggetti di passaggio quali appunto asteroidi e comete.

Con questo abbiamo concluso il nostro viaggio alla scoperta di Giove, basato su pixel, secondi d’arco ed osservazioni dirette… insomma, quello che in fondo è l’Astronomia.




Misura della variazione temporale dell’inquinamento luminoso

L’inquinamento luminoso consiste nella diffusione della luce parassita generata dall’illuminazione artificiale da parte dell’atmosfera terrestre. L’effetto complessivo è quello di una riduzione del rapporto segnale/fondo cielo con conseguente perdita di magnitudine apparente visibile da una determinata regione.

All’inquinamento luminoso contribuiscono sia l’illuminazione pubblica che quella privata. Mentre la prima rimane più o meno costante durante l’intera durata della notte, la seconda connessa all’attività umana dovrebbe diminuire nel corso del tempo a seguito per esempio dello spegnimento delle luci domestiche o diminuzione del traffico stradale.

Se si considera una regione limitata di cielo, allora la luminosità media della stessa dovrebbe variare nel corso della notte con un abbassamento progressivo all’aumentare delle ore dopo il tramonto. A tale scopo si è deciso di riprendere per una notte intera (quella a cavallo tra il 22 ed il 23 luglio 2015) una porzione di cielo delle dimensioni di 23° x 16°, prossima allo zenit, utilizzando un obiettivo fisheye da 8 mm su reflex Canon EOS 500D modificata Baader. Le misure sono state effettuate presso l’Osservatorio Astronomico Smeraldino.

Le immagini in formato RAW, sono state analizzate con IRIS, considerando come valore medio di luminosità della foto il minimo valore in ADU presente nella sezione di cielo considerato. Ovviamente si è prestata attenzione a considerare un valore minimo di ADU superiore al nero pari a circa 1020 ADU.

Il grafico della luminosità del cielo in funzione dell’ora locale è rappresentato in figura 1.

Figura 1: variazione della luminosità del cielo espressa in ADU in funzione dell’ora legale. Le linee verdi verticali rappresentano il crepuscolo nautico, mentre quelle rosse il crepuscolo astronomico rispettivamente di Luna (sinistra) e Sole (destra).

Il grafico mostra in modo evidente i due crepuscoli astronomici, il primo a sinistra della Luna al tramonto (ore 1:42) mentre il secondo a destra del Sole all’alba (ore 3:39). Ovviamente a causa della differente magnitudine dei due oggetti il crepuscolo solare è ben più “intenso” di quello lunare.

Poco prima della fine del crepuscolo astronomico lunare, un sistema nuvoloso è passato nei pressi dello zenit intorno alla 01:21 aumentando improvvisamente la luminosità del cielo dato l’elevato albedo delle nuvole (conseguente aumento di riflessione delle luci artificiali verso terra).

Purtroppo la presenza della Luna e il passaggio delle nubi non hanno permesso un lungo monitoraggio dell’inquinamento luminoso, limitato a poche ore nel cuore della notte. Si è notata comunque una piccola variazione pari al (-0.7±0.4)% al limite della rivelazione.  Quello che ci si aspettava era una variazione sostanziale nelle prime ore della notte, tra le 22.30 circa e le 2.00. Purtroppo la presenza di Luna e nuvole hanno impedito questo tipo di misura.

In ogni caso, la misura effettuata ha mostrato la validità del metodo utilizzato. La stessa verrà ripetuta in autunno e/o inverno in condizioni di luna nuova o calante. Inoltre lo stesso metodo potrà essere utilizzato per misure di inquinamento su scala stagionale al fine di identificare i fattori che influenzano la qualità del cielo. A titolo puramente qualitativo riportiamo in figura 2 la somma delle pose effettuate durante la misura.

Figura 2: somma delle immagini utilizzate per lo studio dell’inquinamento luminoso all’Osservatorio Astronomico Smeraldino.




Diversamente Romantici

Ci sono fenomeni naturali la cui spiegazione fisica è cambiata nel corso dei secoli: vuoi per un generale progresso delle teorie scientifiche, vuoi perché oggi abbiamo accesso ad alcune informazioni difficilmente ottenibili in passato. Ma siamo sicuri che le scuole, i mezzi di informazione o libri da cui attingiamo il nostro sapere siano opportunamente aggiornati?

Non stiamo parlando di scoperte dell’ultima decade ma vecchie di centinaia di anni. Direte voi, impossibile. Eppure in questo articolo andremo a smontare alcune convinzioni comuni.

Partiamo dall’oggetto celeste che meglio conosciamo: la Luna. Come tutti sappiamo il nostro satellite naturale nel corso di un mese circa, varia la sua fase. La “fettuccina” di Luna che ogni notte possiamo osservare ad occhio nudo è la parte di superficie lunare illuminata dalla luce diretta del Sole come rappresentato in figura 1. Sino a qui tutto è corretto e le vostre certezze sono solide come pareti d’acciaio.

Figura 1: sistema Terra – Luna – Sole. Le fasi lunari sono frutto dell’illuminazione diretta del disco lunare da parte del Sole.

Aggiungiamo ora una piccola complicazione al nostro ragionamento. Vi è mai capitato di osservare la Luna pochi giorni prima o dopo la Luna Nuova, ovvero quando la falce di Luna è molto sottile e immersa nelle luci di tramonto/alba? In quei casi oltre alla falce di luna è possibile osservare anche il restante disco lunare, illuminato da una luce tenue che prende il nome di luce cinerea descritta per la prima volta da Leonardo da Vinci.

La spiegazione scientifica di questo fenomeno è stata invece attribuita a Galileo Galilei. La luce cinerea non sarebbe altro che la luce del Sole riflessa dalla superficie terrestre in direzione della Luna, come illustrato in figura 2. Anche la spiegazione della luna cinerea è corretta dal punto di vista scientifico. A questo punto mi chiederete: Dove è la novità?

Figura 2: Sistema Terra – Luna – Sole. La luce cinerea non è altro che la riflessione dei raggi solari da parte della superficie terrestre.

Vi pongo ora la seguente domanda a cui sia Leonardo da Vinci che Galileo Galilei diedero una risposta: di che colore è la luce cinerea? Perché?
Per rispondere alla prima domanda basta osservare attentamente la superficie lunare al binocolo o con un piccolo telescopio. Scoprirete che la luce cinerea ha una tonalità bluastra. Perché? La spiegazione che diede Galileo e che i più ritengono corretta è: “essendo il nostro pianeta formato principalmente da oceani, la luna cinerea riflette il loro colore bluastro”. Ottima spiegazione con un accento non poco romantico: quando guardiamo la luna cinerea stiamo osservando il riflesso dei nostri mari sulla Luna. Questo si che è Amore.
Purtroppo però la giustificazione è sbagliata. La Terra non riflette luce blu perché è coperta principalmente da mari. La Terra non è il pianeta azzurro perché coperto dagli oceani. Vista dal pianeta Marte, la Terra appare come un puntino blu non perché coperta dai mari.
A questo punto fatemi fare una domanda: avete mai osservato il mare dall’alto? Vi siete mai tuffati in una piscina profonda? Il mare è si blu ma quello che osserviamo è una piccolissima parte della luce che incide sulla sua superficie e pertanto la componente di luce solare riflessa dai mari è piccolissima. Se fosse per i mari quindi il nostro pianeta più che azzurro sarebbe nero. Quindi cos’è che rende il nostro pianeta blu? La risposta è semplice. Come diceva una canzone di un tempo “nel blu dipinto di blu, felice di stare lassù”: il cielo. È il blu del cielo che illumina la Luna e che fornisce al nostro pianeta quella tipica colorazione bluastra. Ma perché il cielo è azzurro/blu?
La spiegazione è la nota diffusione di Rayleigh. Questa dice che, quando una luce bianca (solare) attraversa un’atmosfera trasparente (cioè formata da particelle piccolissime, l’aria) questa devia con un angolo diverso a seconda della componente (colore) considerata. In particolare la luce viola viene diffusa maggiormente di quella rossa. Questo spiega perché seppur il Sole sia una stella verde (avete capito bene!) appare giallo quando osservato dalla superficie terrestre. Infatti, la componente viola/blu viene diffusa dalla nostra atmosfera dando luogo al colore del cielo che però vediamo solo blu data la scarsa sensibilità dell’occhio umano al viola,  mentre la componente giallo/rossa prosegue dritta dandoci la sensazione di un disco solare di colore arancio. Al tramonto poi, dove lo diffusione di Rayleigh diventa più efficiente (aumenta il numero di particelle che la luce attraversa), allora persino il giallo e l’arancio vengono diffusi (da cui il colore del tramonto) mentre il disco solare ovviamente diventa di colore sempre più rosso, unica componente in grado ancora di andare dritta.
Quindi riassumendo la luce solare diffusa dall’atmosfera terrestre è la componente che viene inviata verso la Luna e che conferisce alla luce cinerea la tipica colorazione bluastra. Ovviamente la parte del leone la fa la luce bianca direttamente riflessa dalle nuvole e dai ghiacciai ma questa ovviamente è bianca e quindi non fornisce dominanti colorate.
Tornando al Sole, la nostra è una stella verde che però apparirebbe all’uomo comunque bianca anche se osservata dallo spazio dove non abbiamo diffusione di Rayleigh. Infatti l’essere umano non è in grado di vedere stelle di colore verde che appaiono bianche per motivi fisiologici.

Figura 3: la vegetazione come appare in luce (vicino) infrarossa.

Come avrete letto, in questo articolo abbiamo sfatato molti miti (a proposito, il mare non è blu perché riflette la luce del cielo!) e forse scoperto cose sconvolgenti. Una certezza però c’è rimasta: tutto non è com’è, ma come appare ai nostri occhi. Sapete ad esempio che la vegetazione riflette quasi totalmente la radiazione infrarossa (vedi figura 3)? Guardando la luna cinerea in infrarosso vedremmo il riflesso delle nostre piante sul suolo lunare. Fantasia? No, tecniche per individuare l’esistenza di vita in futuri esopianeti o di monitoraggio della vegetazione terrestre. Romanticismo galileiano in chiave contemporanea.




Progetto RadioASTRO80

Nell’articolo Radioastronomia a microonde (10-12 GHz), abbiamo introdotto l’importanza della Radioastronomia e l’opportunità che questa offre a noi astrofili di accedere ai misteri più profondi del Cosmo. In questo articolo invece ci dedicheremo al progetto RadioASTRO80, ovvero la costruzione di un vero e proprio radiotelescopio amatoriale nel range delle microonde (10-12 GHz). Ricordo che ASTROtrezzi non è responsabile di un qualsiasi danno a strumentazione e/o persone a seguito delle modifiche qui riportate.

Iniziamo pertanto con identificare quali sono i processi chiave che portano ad una “osservazione” radioastronomica. Prima di tutto dobbiamo identificare una sorgente, possibilmente astronomica, di onde radio (nel nostro caso microonde) sufficientemente intensa in modo da poter testare con semplicità il nostro strumento. Come per la luce visibile, anche nelle microonde, la sorgente astronomica più luminosa del cielo è il Sole. Infatti, comportandosi come quello che i fisici chiamano “corpo nero” (che per il Sole potrebbe sembrare una contraddizione), il Sole non emette luce solo nel visibile ma anche in una vasta gamma di radiazioni alcune delle quali raggiungono la superficie terrestre come l’infrarosso, le microonde o le onde radio. A questo punto, l’onda a microonde che arriva dal Sole deve essere raccolta da uno strumento ottico e convertita in un segnale elettrico. Per quanto riguarda la luce visibile, è l’occhio a svolgere questa funzione grazie a coni e bastoncelli in grado di convertire la luce in impulsi nervosi che attraverso il nervo ottico raggiungeranno il nostro cervello. Per le microonde e onde radio, l’occhio viene sostituito dall’antenna. L’antenna astronomica è praticamente identica a quella che utilizziamo per ricevere ad esempio la radio, la TV o i cellulari. Tutte queste tecnologie infatti utilizzando le onde radio come mezzo di comunicazione per trasportare i segnali più svariati. La forma e la tipologia di antenna dipende dalla lunghezza d’onda e quindi dal tipo di radiazione da captare. In particolare le antenne per la TV satellitare, dette generalmente parabole, sono in grado di ricevere segnali radio tra 10 e 12 GHz (microonde). Pertanto puntando un’antenna TV satellitare verso una sorgente astronomica che emette microonde con frequenza compresa tra 10 e 12 GHz, questa emetterà un segnale elettrico proporzionale all’intensità dell’onda ricevuta. Il debole segnale prodotto dall’antenna viene subito amplificato e abbassato in frequenza (dalle decine di GHz al centinaio di MHz) attraverso un componente elettronico noto come Low Noise Block converter (LNB). Al fine di non ottenere un segnale di scarsa qualità, il LNB deve essere poco rumoroso e pertanto deve avere il numero di dB associati al rumore il più basso possibile. Questo mediamente è compreso tra 0.1 ed 1.0 e pertanto LNB da 0.1 o 0.2 dB sono più che sufficienti per costruire un radiotelescopio amatoriale. Il sistema di antenna parabolica da 80 cm e LNB da 0.1 dB di rumore (38.8 dB di guadagno) ha un prezzo di circa 20 euro. A questo punto avete il vostro segnale radio amplificato dal LNB. Con questo potete sbizzarrirvi costruendo sistemi sempre più complessi. Il progetto RadioASTRO80 ne include tre, che funzionano contemporaneamente offrendo al radiotelescopio amatoriale, la massima operatività. In seguito andremo ad analizzarne uno alla volta, partendo dal più semplice ed economico arrivando al sistema più complesso (e ovviamente costoso).

MISURA AUDIO DI UN SEGNALE RADIOASTRONOMICO

La cosa più semplice che si può fare un segnale radioastronomico è quello di trasformarlo in un segnale acustico. Per fare ciò ci si può avvalere di una tecnologia economica, presente sul mercato per fini ovviamente diversi da quello astronomico ovvero il satellite finder. Questo strumento, che in italiano suonerebbe come “il cercatore di satelliti” permette, una volta collegato al sistema antenna + LNB, di identificare un satellite TV emettendo un segnale tanto più intenso quanto più intenso è il segnale raccolto dall’antenna. Questo garantisce un comodo ed economico puntamento delle antenne paraboliche. Ma per noi radioastronomi amatoriali, il satellite finder è un generatore di suoni che sono tanto più acuti quanto intensa è la radiosorgente astronomica che andiamo a puntare. Quindi non ci resta che andare a comprare un satellite finder, del costo di circa 10 euro, attaccarlo all’uscita del LNB e puntare l’antenna verso il Sole. Sentiremo un segnale che aumenterà di intensità finché il Sole non entrerà al centro del campo visivo dell’antenna. In questo modo possiamo puntare la parabola alla destra del Sole, ed “ascoltarne” il suo transito. Questo è il sistema più semplice per costruirsi un radiotelescopio amatoriale. Dobbiamo comunque riportare un problema connesso al satellite finder. Questo oggetto è pensato per essere collegato al decoder della TV satellitare, il quale fornisce in uscita una tensione di 15V, utile per alimentare il satellite finder e l’LNB. Purtroppo essendo il nostro utilizzo astronomico, se vogliamo svincolarci dalla presenza del decoder TV, è necessario fornire al satellite finder ed all’LNB una tensione esterna. Questa può essere fornita o tramite un convertitore 220 V AC (alternata) in 15 V DC (continua) o tramite un pacco batterie costituito da due batterie da 9V. Seppur quest’ultima configurazione fornisce una corrente continua da 18V, questa è supportata dal sistema anche se la tensione massima consigliata è di 17V. In ogni caso preferiamo l’utilizzo di un convertitore AC-DC in quanto la stabilità di amplificazione dipende dalla stabilità dell’alimentatore, garantita maggiormente dalla rete elettrica rispetto alle normali batterie.

La tensione andrà portata all’ingresso “decoder TV” del satellite finder. L’elettronica interna del satellite finder con relativi ingressi LNB e decoder TV sono mostrati in Figura 1.

Figura 1: l’elettronica interna del satellite finder.

MISURA ELETTRICA DI UN SEGNALE RADIOASTRONOMICO

Il satellite finder però non genera solo un segnale audio, ma la stessa tensione che alimenta il “cicalino”, permette ad un’asticella analogica di muoversi su una scala graduata la quale quantifica l’intensità del segnale a microonde (vedi Figura 2).

Figura 2: l’asta graduata (da 1 a 10) dell’intensità del segnale

Se il segnale risulta troppo debole, sia dal punto di vista audio che visivo (asticella segna valori bassi tipo 1 o 2), è possibile amplificare il segnale agendo sulla manopola graduata presente sul satellite finder (Vedi figura 2). Dal punto di vista elettronico, il satellite finder acquisisce il segnale dal LNB, lo amplifica ulteriormente producendo una tensione massima di 500 mV in grado di alimentare contemporaneamente il cicalino e l’asta graduata. Questo segnale elettrico compreso tra 0 e 500 mV può essere estratto dai contatti dell’asticella graduata (vedi Figura 1) e misurato con un tester o portato in ingresso della porta microfono di un PC. Noi consigliamo comunque di utilizzare un tester, più sicuro in quanto prima di connettere la tensione del satellite finder al PC bisognerebbe valutarne l’accoppiamento. Grazie a questo sistema possiamo quantificare le nostre osservazioni ottenendo alla fine una misura in tensione del nostro segnale radioastronomico.

DIGITALIZZAZIONE DEL SEGNALE RADIOASTRONOMICO

Il segnale in tensione generato dal satellite finder e compreso tra 0 e 500 mV può essere amplificato ulteriormente grazie all’utilizzo di un amplificatore operazionale (a singola alimentazione 0, +V e non ad alimentazione duale). Questo può essere alimentato con una singola batteria a 9 V ed utilizzando delle resistenze opportune permette di amplificare il nostro segnale di tensione di un fattore 10, ottenendo quindi all’uscita del sistema satellite finder + amplificatore operazionale una tensione variabile tra 0 V (assenza di segnale) e + 5 V (massimo segnale). Agendo sull’amplificatore del satellite finder ovviamanete il massimo segnale può essere fatto variare da +5 V a qualche millivolt. Consigliamo come massima tensione di uscita un valore pari a circa +4 V. Questo mette in sicurezza il sistema di digitalizzazione che ora andremo a descrivere.

Al fine di quantificare e registrare il nostro segnale radioastronomico possiamo digitalizzare il segnale analogico di tensione prodotto dal sistema satellite finder + amplificatore operazionale. Per fare ciò ci serve un Analog to Digital Converter (ADC) ovvero un componente elettronico in grado di trasformare un segnale di ampiezza X in un numero digitale memorizzabile su PC pari a X. L’ADC più economico e che permette di interfacciarsi con un PC in modo semplice è Arduino Uno. Questo costa circa 20 euro e necessita di un cavo USB ed un PC per la memorizzazione dei dati (si può usare anche un shield con scheda SD incorporata). Arduino vuole in ingresso un segnale analogico di tensione massima pari a +5 V (da qui il valore massimo consigliato di +4 V) e fornisce un segnale digitalizzato a 10 bit con una frequenza di campionamento di 60 Hz. Questo significa che se in ingresso forniamo un segnale di ampiezza massima pari a +4 V, Arduino produrrà un segnale digitale (numero) con risoluzione 4 mV, 60 volte al secondo. Questi dati verranno registrati su disco fisso in formato TXT e potranno essere utilizzati per una futura analisi. Il programma che si occupa della scrittura su file è detto radioastroino_v1.pde ed è stato sviluppato da ASTROtrezzi in Processing 2. Il listato è riportato qui sotto:

import processing.serial.*;

import java.text.*;

import java.util.*;

import cc.arduino.*;

 

Arduino arduino;

int analogPin = 0;

int value = 0;

 

PrintWriter output;

DateFormat fnameFormat= new SimpleDateFormat(“yyMMdd_HHmm”);

DateFormat timeFormat = new SimpleDateFormat(“hh:mm:ss”);

String fileName;

Serial myPort;

char HEADER = ‘H’;

 

void setup(){

 arduino = new Arduino(this, Arduino.list()[0], 57600);

 Date now = new Date();

 fileName = fnameFormat.format(now);

 output = createWriter(fileName + “.txt”);

}

 

void draw(){

 String time; 

 String timeString = timeFormat.format(new Date());

 value = arduino.analogRead(analogPin);

 output.println(timeString + ” ” + value);

}

 

void keyPressed(){

    output.flush();

    output.close();

    exit();

}

Bisogna ricordare che prima di lanciare questo programma è necessario eseguire la scrittura sul firmware di Arduino eseguendo il programma Examples > Firmata > StandardFirmata in linguaggio Arduino.

Se un segnale radioastronomico non è particolarmente veloce (come un transito che solitamente dura una decina di minuti), allora è possibile aumentare la risoluzione del nostro segnale digitale mediando il valore in tensione su un secondo di presa dati. Il programma che realizza l’analisi dei dati è detto radioastroino.cpp ed è stato sviluppato da ASTROtrezzi in C++ come macro per CERN ROOT. Il listato è riportato qui sotto.

{

cout << “RADIOASTROINO on CERN/ROOT” << endl;

ifstream fradioastroino;

fradioastroino.open (“radioastroino.txt”);

int i, N;

string timefile;

float adu[60];

float average[3600];

float errorx[3600];

float errory[3600];

float time[3600];

N = 0;

for(i = 0; i < 60; i++) adu[i] = 0;

for(i = 0; i < 3600; i++) {average[i] = 0; errorx[i] = 0; errory[i]=((1.0/sqrt(60.0))/1023.0)*5.0; time[3600];}

while(!fradioastroino.eof())

   {

   for(i = 0; i < 60; i++)

      {

      fradioastroino >> timefile;

      fradioastroino >> adu[i];

      average[N] = average[N] + adu[i];

      }

   average[N] = average[N] / 60;

   cout << time [N] << ” ” << average[N] << endl;

   N = N+1;

   time[N] = N; //seconds from start

   }

gr = new TGraphErrors(N,time,average,errorx,errory);

gr->SetTitle(“RadioASTROino”);

gr->GetXaxis()->SetTitle(“Time (sec)”);

gr->GetYaxis()->SetTitle(“ADU”);

gr->SetMarkerStyle(8);

gr->Draw(“ALP”);

fradioastroino.close();

}

Il software, interamente sviluppato da ASTROtrezzi è open source e pertanto può essere distribuito e modificato. Consigliamo comunque la segnalazione all’indirizzo davide@astrotrezzi.it . Il sistema antenna + LNB + satellite finder (alimentato esternamente da rete elettrica domestica) + amplificatore operazionale + Arduino + PC, detto RadioASTRO80 è mostrato in Figura 3. Questo può essere montato comodamente su una montatura equatoriale. Nel caso di RadioASTRO80 abbiamo utilizzato una SkyWatcher NEQ6 con attacco Losmandy.

Figura 3: il progetto RadioASTRO80 in funzione.

Il risultato ottenuto dal primo test di RadioASTRO80, consistente nella misura del transito solare, è mostrato in Figura 4.

Figura 4: transito solare “osservato” con RadioASTRO80 ed elaborato con radioastroino.cpp.




Cometa C/2014 Q2 (Lovejoy)

Anche quest’anno una cometa di nome Lovejoy varcherà i cieli invernali dando uno spettacolo unico nel suo genere. Molto diversa da quella che illuminò i cieli del 2014 (vedi sezione comete, cometa C/2013 R1 (Lovejoy) la C/2014 Q2 è una cometa caratterizzata da un’imponente chioma ed una coda appena percettibile. La sua traiettoria apparente attraverserà la volta celeste da sud verso nord raggiungendo la massima luminosità nei giorni intorno all’11 gennaio 2015 quando si trovava nella costellazione del Toro. In tale occasione sarà in principio possibile osservarla ad occhio nudo da cieli particolarmente bui e prima che la Luna sorga. L’andamento della magnitudine in funzione del tempo è riportato in Figura 1.

ASTROtrezzi ha seguito la cometa dalla “prima” apparizione a sud, nella costellazione della Colomba il giorno 20/12/2014. Purtroppo l’elevato inquinamento luminoso presente nel nord Italia ne ha impedito qualsiasi forma di ripresa sino al 30/12/2014 quando la sua elevazione ha raggiunto valori considerevoli. Con l’inizio di gennaio 2015, la Luna ormai piena ne ha impedito nuovamente le riprese astrofotografiche anche se la bellissima chioma è stata osservata il giorno 05/01/2015 da Briosco (MB) con un rifrattore acromatico da 15 cm.

UPDATE: cometa ripresa ed osservata il giorno 11/01/2015 da Briosco (MB). L’osservazione è stata effettuata con un monocolo 15 x 70. La cometa era visibile come un batuffolo sferico molto luminoso privo di coda. In fotografia, effettuata con filtro IDAS dato l’elevato inquinamento luminoso, la coda è visibile seppur con non poche difficoltà. Purtroppo la presenza di forte vento non ha permesso la ripresa a focali più elevate.

UPDATE: cometa ripresa il giorno 12/01/2015 da Sormano (CO). Purtroppo la presenza di nubi non ha permesso nessun tipo di integrazione. La coda è visibile con difficoltà in foto.

Seguiteci controllando quotidianamente questa pagina di aggiornamento. Maggiori dettagli verranno forniti giorno dopo giorno indicati con la scritta UPDATE. Inoltre consigliamo la lettura del capitolo comete della “Guida all’Astronomia“.

Figura 1: Luminosità della cometa C/2014 Q2 (Lovejoy). Dati Minor Planet Center

La cometa Lovejoy tornerà a brillare tra i cieli non illuminati dalla Luna a partire dal 09 gennaio 2015 e pertanto l’osservazione binoculare o telescopio potrà diventare davvero gratificante. Le effemeridi della cometa (dati Minor Planet Center) e una mappa del cielo per seguire la cometa, calcolate per la località Sormano (CO) ma generalizzabili praticamente a tutta Italia, sono riportate qui sotto per i mesi di dicembre 2014 – marzo 2015. Di seguito una breve guida su come fotografare la cometa C/2014 Q2 e come seguirla con il software Stellarium.

Figura 2: Effemeridi della cometa C/2014 Q2 (Lovejoy) per la località di Sormano (CO)

Posizione della cometa C/2014 Q2 (Lovejoy) - mappa realizzata con Skychart 3.10

SEGUIRE LA COMETA CON STELLARIUM [ contributo di Matteo Manzoni]

E con l’avvicinarsi in questi giorni della cometa Lovejoy, vediamo come aggiungerla in Stellarium per poterla agevolmente localizzare nel cielo invernale. Per prima cosa dobbiamo avviare Stellarium andando poi in “Finestra di configurazione” o premendo il tasto F2. Selezioniamo quindi il tab “plugins”. Nell’elenco che appare selezionare il plugin “editor sistema solare”. Abilitiamo selezionando la voce “carica all’avvio” e poi premendo il tasto configura.
Nella schermata che viene mostrata dovete selezionare il tab “sistema solare” e poi cliccare sul pulsante “Importa elementi orbitali nel formato MPC…”
Verrà ora mostrata la schermata “importa dati” e selezionando il tab “Ricerca online” si dovrà inserire nella barra di ricerca la denominazione “C/2014 Q2” e poi premere la lente d’ingrandimento per avviare la ricerca.
Selezionare come da immagine il nuovo oggetto mostrato e poi premere su “aggiungi oggetti”.
Ora basterà chiudere tutte le schermate aperte e premendo il tasto F3 si aprirà la schermata di ricerca in cui basterà inserire il nome della cometa “C/2014 Q2” e ci verrà mostrata la posizione esatta della cometa.
.
FOTOGRAFARE LA COMETA LOVEJOY
Una cometa è uno degli oggetti più affascinanti da fotografare e a seconda dello strumento utilizzato può diventare anche uno degli astri più difficili da riprendere. Infatti oltre a partecipare al moto apparente di rotazione con le altre stelle fisse, le comete posseggono anche un loro moto proprio rispetto a queste ultime. Ecco quindi che una montatura astronomica motorizzata non è più, da sola, in grado di inseguire le comete. Quindi che fare?
  • RIPRESA DELLA COMETA C/2014 Q2 CON CAVALLETTO FOTOGRAFICO: utilizziamo l’applicazione VIRGO sviluppata da ASTROtrezzi sia per smartphone che per PC al fine di calcolare il massimo tempo di esposizione possibile per la latitudine a cui si trova la cometa. Potete usare la mappa presente in questo articolo al fine di scegliere la giusta costellazione a seconda del periodo in cui deciderete di osservare la cometa. Consigliamo di aprire il diaframma dell’obiettivo il più possibile mentre per gli ISO è consigliabile utilizzare valori medi compresi tra 400 e 800. Considerando le dimensioni angolari della cometa, questa appare già visibile e può pertanto essere ripresa con il paesaggio a focali corte, intorno ai 50mm. Consigliamo comunque riprese a 70-100 mm in modo da vedere i tenui dettagli della coda.
  • RIPRESA DELLA COMETA C/2011 L4 CON UNA MONTATURA ASTRONOMICA: purtroppo il problema del moto proprio delle comete rispetto alle stelle fisse, illustrato nel paragrafo precedente, non si può risolvere banalmente con una montatura astronomica seppur motorizzata. Infatti questa è in grado di seguire il movimento delle stelle e non delle comete. Come fare allora? Esiste solo una possibilità: inseguire la cometa invece delle stelle! Questo può essere fatto solo attraverso una guida (manuale o autoguida) inseguendo il nucleo della cometa invece della tipica stella di guida. Ovviamente, quando andremo a sommare le nostre immagini, dovremmo allinearle rispetto al nucleo della Lovejoy generando evidentemente il mosso nelle stelle. Il risultato finale sarà quindi una cometa perfettamente a fuoco e ben esposta con uno star-trail di fondo. Alcuni software come DeepSkyStacker permettono di ottenere sia stelle che cometa puntiformi attraverso sistemi più o meno complessi di combinazione delle immagini. Unico punto dolente, ma purtroppo non prevedibile, è la possibilità che il nucleo risulti particolarmente attivo modificando velocemente la forma della coda. In tal caso bisognerà prestare attenzione alle immagini da sommare al fine di non ottenere un “mosso” sulla coda della cometa.

Riportiamo in seguito la lista delle immagini della cometa C/2014 Q2 (Lovejoy) ripresa da ASTROtrezzi:

C/2014 Q2 (Lovejoy) - 30/12/2014

C/2014 Q2 (Lovejoy) - 11/01/2015

C/2014 Q2 (Lovejoy) - 12/01/2015

C/2014 Q2 (Lovejoy) - 24/01/2015




Radioastronomia a microonde (10-12 GHz)

Le microonde sono un particolare tipo di radiazione elettromagnetica caratterizzata dall’avere frequenza compresa tra i 3 e i 300 GHz. L’Universo emette praticamente in tutte le lunghezze d’onda e pertanto è possibile “osservarlo” anche nelle microonde. Purtroppo però, il range a cui è sensibile il nostro occhio è limitato a quella stretta regione dello spettro elettromagnetico detta luce visibile caratterizzata dall’avere lunghezza d’onda compresa tra circa 380 e 760 nm. Le microonde sono invece molto più lunghe, spaziando tra i 10 mm ed i 10 cm e pertanto invisibili all’occhio umano. Proprio per questo motivo si rende necessario l’impiego di particolari strumenti in grado di trasformare questa luce “invisibile agli occhi” in qualcosa percettibile con i nostri organi di senso. Tali strumenti sono le antenne o radiotelescopi i quali, opportunamente collegati ad un computer, sono in grado di trasformare il segnale elettrico generato dall’onda in uno sonoro e/o luminoso. Di tutto il range di frequenze dell’Universo a microonde, andremo qui ad analizzare quello compreso tra 10 e 12 GHz. Il motivo è molto semplice: in questo intervallo di frequenza abbiamo già la tecnologia necessaria tra le mani. Altre frequenze nelle microonde o radio richiedono una strumentazione più sofisticata, specializzata e spesso di grandi dimensioni (superiori al metro). Inoltre le conoscenze di elettronica non sono così banali come quelle necessarie per autocostruirsi un radiotelescopio a microonde nel range 10-12 GHz. Ma di che tecnologia stiamo parlando? La risposta è molto probabilmente sopra tetto di casa vostra: l’antenna per la ricezione della TV satellitare. Utilizzando una banale antenna parabolica e pochissima altra strumentazione elettronica dal prezzo spesso inferiore alla decina di euro potrete costruire il vostro primo vero radiotelescopio. In particolare il post “RadioASTRO80” descrive come realizzare un’antenna a microonde da 80 cm di diametro per utilizzo astronomico, sia divulgativo che di ricerca scientifica amatoriale. Tale tipo di radiotelescopio ci permette di accedere a quella parte di Universo invisibile agli occhi: il mondo a microonde. Ma cosa possiamo “osservare” nell’Universo a microonde e radio?

RadioASTRO80 su montatura SkyWatcher NEQ6

Iniziamo classificando le possibile sorgenti astrofisiche in tre categorie: termiche, non termiche e sorgenti a spettro discreto. Le sorgenti termiche, sono tutti quegli oggetti che emettono con uno spettro tipico di corpo nero. Queste sono le stelle come il nostro Sole, i pianeti o la radiazione di fondo cosmico (CMB). Radiazioni non termiche sono quelle invece originate da processi di emissione tipo Bremsstralung o sincrotrone come getti di gas in galassie attive. Infine le sorgenti a spettro discreto sono quelle in cui l’emissione avviene a frequenza costante a seguito di fenomeni di spin-flip dell’idrogeno neutro (HI) con emissione a lunghezza d’onda di 21 cm, linee di ricombinazione o ancora linee molecolari (CO, OH, …).

Ovviamente non tutte queste sorgenti sono “visibili” nel range 10-12 GHz. Di quelle “osservabili”, la sorgente più luminosa rimane il Sole, sia nelle sue regioni quiescenti che attive. Quasi 100 volte più debole in termini di flusso troviamo la Luna che riflette la “luce” a microonde del Sole. 1’000 volte più debole abbiamo invece la Via Lattea ed infine 10’000 volte più debole, al limite della ricezione con strumenti amatoriali, troviamo alcune radiosorgenti come Cassiopea A (ovvero la nebulosa omonima), Taurus A (la nebulosa M1 nel Toro) e Orion A (la nebulosa M42 in Orione).

Purtroppo alcune sorgenti importanti come la CMB o la linea a 21 cm dell’idrogeno neutro sono fuori dal range di “visibilità” a 10-12 GHz. Ultima sorgente sporadica, ma non meno importante delle altre qui descritte, sono le meteore che durante la loro fase “esplosiva” in atmosfera emettono anche nelle microonde.

In questo articolo abbiamo visto quali possono essere le risorse che la radioastronomia a microonde  ci mette a disposizione. Il progetto RadioASTRO80 dimostra infine come, con poche decine di euro, sia possibile avere tra le mani un radiotelescopio amatoriale di buona qualità con cui fare della semplice ricerca amatoriale. Non vi resta quindi che mettere le mani a tester, cacciaviti, PC e saldatori e prepararvi a costruire il vostro primo radiotelescopio a microonde!




Studio della Nova Delphini 2013 (PNV J20233073+2046041)

ARTICOLI DI ASTRONOMIA AMATORIALE
VOLUME 2 NUMERO 3 (2013)

ABSTRACT

La Nova Delphini 2013 è stata scoperta il 14 Agosto 2013 dall’astrofilo giapponese Koichi Itagaki ed è tutt’ora visibile con binocoli e piccoli telescopi nella costellazione del Delfino. Il massimo di luminosità della nova, pari a magnitudine +4.3, è stato raggiunto il 16 Agosto 2013. In questo articolo riportiamo le immagini della Nova Delphini 2013 riprese da Briosco il giorno 17 Agosto 2013, nonché la misura dello spettro elettromagnetico della stessa effettuata il giorno seguente mediante un reticolo di diffrazione tipo StarAnalyser 100 (100 linee/mm). Questa misura ci ha permesso di classificare Nova Delphini 2013 come una nova di tipo Fe II e di valutare, tramite l’allargamento Doppler delle linee di emissione HI presenti, la velocità di espansione della nebulosa associata pari a 1621 km/s.

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Vedere i pianeti ad occhio nudo

Se non fosse per le fasi lunari e le strutture variabili del nostro Sole come le macchie o le protuberanze, l’Universo può apparire statico, dato che i tempi “evolutivi” del Cosmo sono ben più lunghi della vita di un essere umano. Il lettore potrebbe quindi pensare che dopo anni di osservazioni e di riprese fotografiche la vita dell’astrofilo sia destinata a diventare noiosa e poco stimolante. Eppure non tutte le “stelle” del cielo rimangono “fisse” nel corso dei mesi e degli anni; alcune si muovono percorrendo nel cielo lo stesso tragitto compiuto dal Sole e dalla Luna e noto come eclittica. Tali stelle presero in passato il nome di pianeti ovvero stelle erranti. Ecco quindi che i pianeti appaiono sotto tutti gli effetti come stelle e non solo: alcuni di essi rappresentano le “stelle” più luminose del cielo e quindi facilmente visibili ad occhio nudo anche da centri cittadini. Il movimento dei pianeti rispetto alle stelle fisse non è così veloce come uno potrebbe aspettarsi: nell’arco di un’intera notte è infatti difficile avvertirne lo spostamento. Tale moto diviene evidente solo con il passare dei giorni o dei mesi, specialmente se il pianeta si trova basso sull’orizzonte.
I pianeti più luminosi visibili da Terra sono Venere di colore bianco e Giove di colore giallo. A seguire Marte, di colore rosso mattone, che per motivi orbitali varia di molto la sua luminosità passando dall’essere una tra le stelle più luminose del cielo ad una stella di media luminosità. Mercurio, di colore arancione, è piuttosto luminoso ma essendo sempre vicino al Sole è difficile da distinguere tra le luci di alba e tramonto. Infine via via più deboli troviamo Saturno e Urano. Il primo di colore giallo ed il secondo, al limite della visibilità ad occhio nudo, di colore azzurro. Per osservare l’ultimo pianeta del Sistema Solare è invece necessario utilizzare un binocolo di medie dimensioni o un piccolo telescopio.
Tutti i pianeti ruotano intorno al Sole muovendosi su un piano che visto in sezione rappresenta l’eclittica. Rispetto all’orbita descritta dal nostro pianeta, è possibile distinguere tra pianeti interni ed esterni. I primi si trovano sempre tra noi ed il Sole e pertanto è impossibile osservarli nel cuore della notte. Questi inoltre potranno apparire in fase o transitare sul disco solare. I pianeti esterni d’altronde potranno essere visibili anche nel cuore della notte. Il punto di massima visibilità e di minima distanza dal nostro pianeta è quella in cui il pianeta esterno si trova allineato con la Terra ed il Sole. Tale condizione prende il nome di opposizione. I pianeti esterni non presenteranno quindi una fase visibile, mantenendosi sempre prossima al 100%, e soprattutto non potranno mai transitare sul disco solare. Ricordiamo infine che i pianeti interni sono Mercurio e Venere, mentre quelli esterni sono Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno.

Come appare Saturno in un telescopio amatoriale.

I pianeti però non sono gli unici astri “erranti”. Esistono infatti corpi minori, e quindi meno luminosi, che si spostano tra le stelle fisse. Uno di questo venne addirittura ad occupare la posizione di pianeta fino al 24 Agosto del 2006: Plutone. Stiamo parlando di pianeti nani e asteroidi. I primi sono corpi celesti simili ai pianeti ma di piccole dimensioni, mentre i secondi sono corpi rocciosi di piccole dimensioni con orbita compresa tra quella di Marte e Giove. I pianeti nani classificati sino ad oggi sono cinque: Cerere, Plutone, Haumea, Makemake ed Eris. Gli asteroidi sono invece migliaia e spesso più che con un nome vengono identificati con una sigla.
Oggetti tanto misteriosi quanto affascinanti sono infine le comete, palle di neve sporca che per instabilità gravitazionali vengono a modificare la propria orbita “cadendo” verso le regioni interne del Sistema Solare. Quando si avvicinano al Sole ecco quindi che il ghiaccio sublima dando luogo a quella che è l’atmosfera cometaria: la chioma. Gas e polveri vengono così emessi nello spazio e conseguentemente spazzati via dal vento solare formando quella che è la coda cometaria. Ricordiamo che il 2013 sarà ricordato per gli abitanti dell’emisfero boreale come l’anno delle comete dato che ben tre comete luminose varcheranno i nostri cieli: la cometa PAN-STARRS, LEMMON ed ISON.  Quando il nostro pianeta, durante il suo moto di rivoluzione intorno al Sole, attraversa i detriti lasciati nello spazio dalle comete abbiamo il manifestarsi del fenomeno degli sciami meteorici. Quindi le meteore o “stelle cadenti” non sono altro che detriti di origine cosmica che, cadendo verso Terra, si “incendiano” emettendo luce. Se una meteora cade sino a sfiorare la superficie terrestre si parla di bolidi. I bolidi possono essere udibili anche a grandi distanti o persino creare danni al suolo. Quando una meteora infine si impatta sulla Terra viene denominata meteorite.
Concludiamo infine ricordando che oltre ai corpi celesti abbiamo i satelliti artificiali e la stazione spaziale internazionale (ISS) che appaiono in cielo come stelle luminose in moto tra le stelle fisse. Queste possono poi scomparire magicamente nel nulla quando passano attraverso il cono d’ombra generato dalla Terra. Alcuni satelliti invece possono ruotare su se stessi velocemente riflettendo come dei flash la luce del Sole. Tali flash che appaiono ad occhio nudo come dei bolidi sono chiamati iridium flash.
Non siete soddisfatti della vastità di oggetti da osservare e riprendere con le vostre fotocamere digitali che vi offre l’Universo? Allora ve ne aggiungiamo altri. Infatti, oltre ai corpi celesti “erranti” esistono altri che variano la loro luminosità nel tempo. Esempi sono le stelle variabiliche cambiano la loro luminosità passando dall’essere visibili ad occhio nudo ad essere faticosamente distinguibili con un binocolo. Il motivo di tale variazione di luminosità dipende dalla natura della stella (sistema doppio che si eclissa reciprocamente, stelle instabile, …).

Esempio di supernova esplosa nella galassia M65

Altri esempi sono le novae, ovvero stelle che per un certo periodo della loro vita vanno incontro a fenomeni esplosivi violenti in grado di aumentarne vertiginosamente la luminosità. Ultimo fenomeno transitorio è l’esplosione di supernova. In questo caso la luminosità della stella, giunta ormai al termine della propria vita, aumenta vertiginosamente, diventando così il corpo più luminoso dell’intera galassia che la ospita. L’esplosione di supernova è un fenomeno raro all’interno di una stessa galassia, ma considerando la quantità enorme di galassie alla portata dei telescopi amatoriali, scopriamo che ogni mese è possibile riprenderne almeno una (vedi Figura). Ben diverso è osservare una supernova all’interno della Via Lattea. L’ultima ad essere esplosa è la nota “stella di Keplero”, osservata nell’ormai lontano 9 Ottobre del 1604. Alcune delle nebulose che oggi osserviamo nel cielo sono resti di quelle imponenti esplosioni.




Vita e Morte delle Stelle

Seppur in quantità minore rispetto al Sole, anche la luce lunare viene diffusa dalla nostra atmosfera donando al cielo notturno una colorazione bluastra. Purtroppo a seguito dell’inquinamento luminoso questo fenomeno non è più osservabile da cieli urbani e suburbani dove la volta celeste appare perennemente di colore giallo-arancione.

Una stella risulta visibile a occhio nudo quando è distinguibile dal fondo cielo. Questo ovviamente nei limiti imposti dalla natura stessa dell’occhio umano. Quindi se il cielo aumenta la sua luminosità discostandosi dal colore nero, se ne deduce che il numero di stelle visibili ad occhio nudo tende mano a mano a diminuire. Il caso limite è ovviamente il cielo diurno dove la diffusione della luce solare cela all’occhio umano la visione di tutte le stelle presenti. Se pertanto vogliamo osservare un cielo ricco di stelle dobbiamo cercare un cielo buio che si traduce in basso inquinamento luminoso e assenza di Luna in cielo. Questo spiega perché gli astrofili osservano gli oggetti celesti prevalentemente in condizioni di Luna Nuova e perché gli Osservatori Astronomici aprono le loro porte al pubblico in Luna Piena.
È giunto quindi il momento di fare il grande balzo. Scegliete quindi il weekend più vicino alla Luna Nuova, prendete la vostra automobile e correte il più lontano dai centri cittadini. Dato che a diffondere la luce sono principalmente le particelle di acqua presenti in atmosfera, cercate un posto asciutto come i valichi alpini o le cime di colli. A questo punto, aspettate due ore circa dopo il tramonto in modo da dare il tempo al Sole di andare sufficientemente sotto l’orizzonte con la sua luce accecante e alzate gli occhi al cielo: ciò che vedrete sarà un’esperienza unica e indimenticabile. Le stelle in cielo saranno tantissime e le più luminose sembreranno cadervi in testa. Solo dopo una mezz’ora riuscirete ad orientarvi e a distinguere quelle poche stelle che avete imparato a riconoscere dai cieli inquinati di casa vostra.
Ora che avete cominciato a ritrovare le vostre stelle di guida, siete pronti per cominciare a navigare tra le stelle che inondano la volta celeste. Ma prima di fare ciò osservate con attenzione le stelle più luminose. Non sono tutte dei puntini bianchi. Alcune di esse avranno una colorazione più giallognola, alcune rosso mattone, altre azzurro chiaro. Le stelle assumono infatti colorazioni differenti a seconda della loro natura e del loro stato evolutivo. Purtroppo anche l’esperienza di osservare i colori delle stelle sta diventando un lontano ricordo per gli astrofili che vivono sotto cieli urbani o suburbani.
Quei puntini luminosi (ora potremmo dire anche colorati) che chiamiamo abitualmente stelle sono in realtà sfere di gas del tutto simili al nostro Sole, poste a distanze enormi da noi. Le dimensioni di questi “Soli” variano moltissimo passando da circa 20 km di diametro a 2600 volte il diametro del nostro Sole.
Ancora una volta le dimensioni di una stella dipendono dalla loro natura e dal loro stato evolutivo. Infatti, come gli esseri viventi, anche le stelle nascono, crescono e muoiono. Volendo semplificare e generalizzare l’evoluzione stellare potremmo affermare che, da una nube di gas primordiale, condensarono in un passato più o meno lontano una o più stelle, così come le gocce di pioggia condensano dalle nuvole. La forza di gravità responsabile di tale condensazione ha permesso alle regioni centrali della stella neonata di raggiungere temperature elevatissime in grado di innescare reazioni di fusione termonucleari. Saranno proprio queste ultime a permettere alla stella di non collassare ulteriormente e di brillare per miliardi di anni. In questa condizioni di stabilità si trova ad esempio ora il nostro Sole. Dopo miliardi di anni però il “combustibile nucleare” presente nel cuore della stella tende ad esaurirsi. Ecco quindi che con il venire meno delle reazioni di fusione termonucleare la stella ritorna in una fase di instabilità e a seconda della sua massa può procedere attraverso vie più o meno tormentose che la porteranno a liberarsi di quasi tutto il gas che la compone attraverso processi più o meno esplosivi. Il gas così liberato nello spazio prende il nome di nebulosa. Proprio in queste nebulose potranno successivamente nascere nuove stelle. Quando la stella libera il proprio gas in maniera non violenta, allora la nebulosa assume una forma sostanzialmente sferica e si parla di nebulose planetarie (vedi Figura).

Nebulosa planetaria nella costellazione della Volpetta

Il nostro Sole finirà la propria esistenza generando una nebulosa planetaria. Il nome “planetario” deriva dal fatto che in passato, quando la qualità ottica dei telescopi era piuttosto bassa, queste nebulose venivano confuse con dischi planetari.
Seppur deboli rispetto alle stelle, le nebulose sono visibili sia ad occhio nudo che ovviamente attraverso binocoli o telescopi. Come detto in precedenza, da una nube primordiale possono nascere più stelle contemporaneamente che pertanto appariranno in cielo in forma di gruppi, per poi dissolversi nel corso di miliardi di anni. Tali gruppi di stelle, alcuni dei quali visibili facilmente ad occhio nudo, prendono il nome di ammassi aperti.
La distanza tra una stella e l’altra dell’ammasso è però molto grande tanto da ritenere le stelle come sistemi indipendenti. Altre volte però due o più stelle possono trovarsi così vicine da cominciare a ruotare le une intorno alle altre. In questo caso si parla di sistemi multipli a possono essere osservate con piccoli telescopi. Quando le stelle del sistema sono solo due si parla di stelle doppie. Ovviamente due stelle molto vicine in cielo non è detto che siano legate fisicamente. Infatti potrebbe essere solo un allineamento prospettico tra stelle molto lontane tra loro. In questo caso si parla di stelle doppie prospettiche. Una stella doppia prospettica assai nota è la coppia Alcor e Mizar che costituisce una delle sette stelle dell’Orsa Maggiore.
Ma le stelle sono distribuite uniformemente nella volta celeste? Se la osservate in primavera la risposta sembrerebbe essere si, ma osservando il cielo notturno in tutte le altre stagioni osserverete una striscia lattiginosa attraversare il cielo. Proprio in questa striscia troverete il maggior numero di nebulose ed ammassi aperti visibili ad occhio nudo. Si chiama Via Lattea è rappresenta una vera e propria “nube” di stelle. Se infatti prendete un binocolo e percorrete la Via Lattea scoprirete che quella macchia lattiginosa non è altro che una distesa quasi infinita di stelle. In realtà tutte le stelle visibili di notte ed il nostro stesso Sole appartengono a questo vastissimo insieme di stelle che chiamiamo Galassia.
Se ora guardiamo nel cielo più profondo è possibile osservare altri insiemi di stelle del tutto simili alla nostra Galassia. Sono le galassie (con la “g” minuscola) di cui la più vicina, nota come galassia di Andromeda, è visibile persino ad occhio nudo da cieli particolarmente bui.
Scopo di questo post è di dare al lettore la terminologia astronomica necessaria per comprendere i soggetti di future riprese astrofotografiche. Non è nostro scopo dare una descrizione completa di tali corpi e fenomeni celesti. Il lettore interessato potrà trovare tali informazioni in qualsiasi libro di Astronomia.




Luna e Sole

Potremmo affermare che tra tutti i corpi celesti, la Luna e il Sole sono quelli più noti anche tra quelle persone non appassionate di Astronomia. In passato erano importantissimi, dato che con il loro moto, determinavano il passaggio del tempo. Il Sole è la stella più vicina alla Terra e questo fa si che essa appaia come l’oggetto più luminoso del cielo. La sua luminosità è così elevata che la luce solare viene diffusa dall’atmosfera terrestre che pertanto si illumina coprendo così la luce delle altre stelle. Questo è il motivo per cui di giorno non riusciamo ad osservare nessun corpo celeste ad eccezione della Luna, del pianeta Venere e di eventuali fenomeni transienti come comete, meteore o esplosioni di supernovae. Grazie all’ausilio di filtri specializzati è possibile osservare una regione della nostra stella nota come fotosfera, che potremmo definire come la “superficie” del Sole. Questa appare come una superficie luminosa uniforme, solcata a volte da macchie scure e filamenti brillanti. Le prime sono note come macchie solari e rappresentano delle regioni più fredde della fotosfera. Queste prendono parte alla rotazione solare e evolvono nel tempo modificando continuamente la loro forma e dimensione. Il Sole presenta dei periodi in cui è ricco di macchie solari, alternati a periodi di apparente quiescenza. Tali periodi prendono rispettivamente il nome di massimo e minimo solare. La distanza temporale tra due massimi solari è nota come ciclo solare ed è pari a circa 11 anni. Le regioni più brillanti della fotosfera sono le facole e in contrapposizione alle macchie solari sono regioni particolarmente calde. Grazie a particolari telescopi, noti come telescopi solari H-alfa, è possibile osservare la regione sovrastante la fotosfera, nota come cromosfera. La cromosfera potremmo interpretarla come “l’atmosfera solare”. Le strutture più evidenti della cromosfera sono le protuberanze solari; immensi getti di gas e plasma che raggiungono spesso dimensioni enormi pari a parecchie volte il diametro dell’intera Terra. La cromosfera è visibile, insieme alla regione ancor più esterna costituita da gas rarefatto e nota con il nome di corona, durante le eclissi totali di Sole.

Eclissi Totale di Sole - 11/08/1999. Dall'immagine è ben visibile la corona solare.

Durante questi fenomeni visibili da Terra, la Luna si interpone tra il Sole e il nostro pianeta, oscurando così la luce della fotosfera e rendendo visibile la cromosfera. Quando la sovrapposizione non è perfetta e la Luna non riesce a coprire perfettamente il Sole allora si parla di eclissi anulare.
La Luna appare vista dal Terra delle stesse dimensioni angolari del Sole. Questo è dovuto al fatto che il diametro della nostra stella sia circa 400 volte quello lunare e, nello stesso tempo, la Luna sia 400 volte più vicina alla Terra. Condizione fortuita ma che permette il manifestarsi delle eclissi totali così come le conosciamo. La Luna è il nostro unico satellite naturale e ruota intorno a noi, così come su se stessa, con un periodo di circa un mese. Conseguenza di questo sincronismo tra periodo di rivoluzione e rotazione è che la Luna mostra a noi terrestri sempre la stessa faccia. Malgrado questo, a causa del moto di rivoluzione intorno alla Terra, la Luna presenta le fasi. Quando la Luna è completamente illuminata dal Sole si parla di Luna Piena, quando è illuminata per metà Luna al Primo o Ultimo Quarto infine quando non è illuminata e quindi invisibile tra le luci del giorno si dice essere Luna Nuova. Se, durante la fase di Luna Piena, il nostro satellite viene completamente oscurato dal cono d’ombra terrestre, allora si manifesta un’eclissi totale di Luna. Potrete ben capire che le eclissi di Sole avvengono unicamente in Luna Nuova, quando il nostro satellite si trova tra noi ed il Sole. Ingrandendo il disco lunare attraverso un semplice binocolo, teleobiettivo o telescopio è possibile notare alcune conformazioni tipiche quali crateri da impatto, pianure note anche come mari lunari, vallate o catene montuose. Come per la durata del giorno, anche il periodo tra due Lune Piene non è esattamente 27 giorni 7 ore e 42 minuti ovvero il periodo di rivoluzione della Luna detto mese siderale ma 29 giorni 12 ore e 44 minuti a seguito del moto della stella intorno al Sole. Quest’ultimo periodo è detto mese sinodico.




E pur si muove!

Nel post “La volta celeste da cieli urbani e suburbani” abbiamo posto le basi necessarie per individuare i quattro punti cardinali e in particolare la posizione della stella Polare. Ciò, abbiamo detto, è particolarmente semplice nei mesi compresi tra Marzo e Giugno, ossia quando la costellazione dell’Orsa Maggiore è alta sopra l’orizzonte. Quest’ultima frase sottende il fatto che le costellazioni in cielo si muovono. Questo moto non coinvolge le singole stelle ma la volta celeste nel suo complesso, lasciando pertanto invariata la forma delle costellazioni.

Infatti è possibile notare come durante la notte tutte le stelle, fisse nella loro reciproca posizione relativa, sembrano ruotare da est verso ovest tracciando delle circonferenze intorno alla stella Polare ed intorno ad un punto posto sotto l’orizzonte a sud come mostrato in figura.

Figura 1: A sinistra è visibile il moto relativo delle stelle intorno al polo celeste (nord). A destra invece è possibile notare come le stelle più basse a sud incominciano a ruotare intorno all'altro polo celeste (sud)

In realtà questo effetto è una diretta conseguenza del fatto che la Terra ruota su se stessa. Esistono quindi solo due punti nel cielo che non partecipano al moto della volta celeste ovvero quelli che giacciono esattamente sull’asse di rotazione terrestre. Questi punti a seconda che si trovano sopra il polo nord o sud terrestre prendono rispettivamente il nome di polo celeste nord e polo celeste sud. La stella Polare si trova a pochissima distanza dal polo celeste nord e questo spiega perché è l’unica stella che dalle nostre latitudini non cambia mai la sua posizione nel cielo. Purtroppo non esiste una stella luminosa nei pressi del polo celeste sud e questo fa si che, in termini di orientamento il nostro emisfero (boreale) sia sicuramente avvantaggiato rispetto all’altro (australe).

Visto dallo spazio i poli celesti si trovano esattamente sopra i rispettivi poli terrestri. Pertanto un osservatore posto a una latitudine λsulla superficie terrestre osserverà il polo celeste a un’altezza λ (in gradi) sopra l’orizzonte. Per gli astrofili e astrofotografi Italiani quindi la stella Polare si troverà ad un’ altezza compresa tra 35° (Lampedusa) e 47° (Alto Adige) dall’orizzonte nord.

Riassumendo, nel corso della notte, tutta la volta celeste e quindi le stelle, sembrano ruotare rigidamente in senso antiorario intorno ad un unico punto fisso identificato nel nostro emisfero dalla stella Polare. Questo è lo stesso moto che ogni giorno percorrono il Sole, la Luna e tutti i corpi del Sistema Solare. Se ora supponiamo di registrare la posizione di una stella a una determinata ora della notte allora, dopo una rotazione completa della Terra intorno al suo asse, ovvero dopo un giorno, questa dovrebbe trovarsi nella stessa identica posizione. Questo sarebbe vero solo se la Terra non partecipasse al moto di rivoluzione intorno al Sole. Il moto di rivoluzione intorno al Sole fa si che al normale moto di rotazione terrestre si debba aggiungere un moto di rotazione “fittizio” di periodo 365 giorni 6 ore 9 minuti e 10 secondi (anno siderale). Ecco quindi che una stella si troverà nello stesso punto del cielo non dopo 23 ore 56 minuti e 4 secondi, noto come giorno siderale ma dopo circa 24 ore noto come giorno solare vero. In realtà a seguito dell’orbita non perfettamente circolare della Terra e dell’angolo di inclinazione del pianeta rispetto al piano orbitale, il giorno solare vero varia durante l’anno con un minimo di 23 ore 59 minuti e 39 secondi a cavallo del 17 Settembre ed un massimo di 24 ore 0 minuti e 30 secondi a cavallo del 24 Dicembre. Per tale motivo spesso si preferisce usare il giorno solare medio pari a 24 ore esatte.

In questo post abbiamo scoperto quali sono le caratteristiche del moto relativo della volta celeste e l’importanza che la stella Polare ricopre per l’emisfero boreale.